Ospitiamo con piacere una riflessione sui Mondiali di Calcio dell’amico e collega Alberto Andorlini. Responsabile della rieducazione funzionale del Palermo Calcio, Andorlini ha lavorato per Siena e Chelsea, ha allenato Batistuta a Dubai e collabora con Technogym per il progetto di ricerca e formazione sull’Ability Training cui partecipiamo anche noi (qui puoi leggere il nostro speciale sulle Paralimpiadi: la migliore spiegazione del concetto di abilità). E’ un creativo del movimento e dell’allenamento.

5395ca1d64145

Pochi sanno che i mondiali di calcio non si giocheranno in Brasile. I Mondiali quelli veri intendo.

Il Campionato del mondo del Brasile esiste. Questo sì. E il Brasile rappresenterà un palcoscenico mediatico assolutamente verosimile. Ideato, costruito, e assemblato, sulle impalcature virtuali di eventi paralleli, il Campionato Brasiliano si farà.

L’erba, sintetizzata e selezionata da menti altrettanto sintetiche, resisterà all’onda impazzita di jingles e mascottes. La pubblicità si impossesserà di ogni respiro. Il Pubblico si impossesserà della Pubblicità. L’Anonimo Privato si impossesserà del pubblico. E lui solo, l’anonimo privato, si ciberà delle onde azionarie irradiate dal Paese delle Meraviglie. Ogni esecrabile sospetto, ogni inudibile credo, ogni invisibile pensiero, ogni insondabile emozione, tutto, tutto, sarà vivisezionato, parcellizzato, frammentato, masticato, e digerito. E finalmente espulso, per le contorte vie dell’evidenza giornalistica.

E noi vibreremo, come mansueti ghirigori di fumo, attratti da dimenticate pulsioni maniacali e assuefatti al rullare ritmico di consonanze primordiali. Ci accasceremo disfatti nella catarsi della sconfitta, o salteremo, energici ed energetici come non mai, nell’esplosione di una vittoria insperata e dispettosa. Il dramma psicocinetico dell’epopea calcistica si consumerà lento, sulle braci di un’ara sacrificale, lunga 30 giorni e tangibile, come 50 pollici di altissima definizione.

Loro, i conturbanti eroi dell’era Twitter, indosseranno morbide scarpe infrangibili e calceranno l’eleganza dei gesti oltre i confini euclidei dei 90 minuti.

Tutto questo accadrà. E lascerà ricordi palpabili come la parabola eterna della vergine-palla il volo senza peso e senza sesso dell’angelo calciatore.

Detto questo. Concesso questo. Sopportato o supportato tutto questo, eccoci al dunque. Pochi sanno che i veri Mondiali non si giocheranno in Brasile. Questo lo sussurro all’orecchio di chi è attento ai segnali del Momento. Alle scie celesti dell’eterno e vero Movimento.

worldcupbrazil

veri Mondiali si stanno giocando da quattro anni, ai quattro canti del Mondo.

E i giocatori siamo noi.

La cosa buffa è che nessuno ci ha avvertito. E non c’è nessuno che ci abbia spiegato le regole.

Giochiamo tutti i giorni. Noi tutti, tutti noi: abbandonati e stanchi, irascibili e incompresi, deboli e incapaci. Tutti noi, poco artisti e poco atleti, molto poco allenati a trattenere un solo, unico, disperato pensiero.

Io sono stato eliminato qualche mese fa – peccato! – quando, una sera, mi sono attardato al computer, dimenticandomi di respirare il tramonto che mi stava aggredendo.

Pago ancora. Per quello che è stato.
Un errore senza prezzo.

[button color=”blue” size=”small”]More[/button]

[list type=”plus”]

[/list]

Questa è la settimana della donna e a noi di Vitalia piace mettere l’accento sul come e perché l’esercizio faccia bene nella prevenzione e nella cura di alcune patologie femminili.

Beautiful Sprinter looking forward with determination

Tumore al seno

Questa patologia, purtroppo molto diffusa e, per fortuna, in molti casi curabilissima può essere efficacemente combattuta oltre che con terapie chirurgiche e farmacologiche, con l’esercizio fisico e la corretta alimentazione.

Il movimento è di dimostrata efficacia sia nella prevenzione primaria – evitare che la patologia insorga – sia in quella secondaria – evitare che la patologia ricompaia dopo essere stata trattata.

Per quanto riguarda la prevenzione, numerose ricerche scientifiche dimostrano che un programma di 30’ al giorno di camminata permetta di prevenire l’insorgenza della neoplasia specie se associato a una dieta povera di zuccheri raffinati e di carni rosse e ricca di fibra, proteine vegetali e frutta. In particolare, l’obiettivo dell’alimentazione è limitare i picchi di glicemia che sembrerebbero associati al rischio di sviluppare la patologia neoplastica.

E’ interessante sottolineare che durante il trattamento chemioterapico e radioterapico, le pazienti che continuano a svolgere attività aerobica e esercizi per il miglioramento della forza hanno dimostrato maggiore resistenza e capacità di ripresa rispetto alle pazienti inattive (articolo scientifico di riferimento). Ovviamente l’esercizio dovrà essere adattato alla capacità funzionale di ogni singola paziente.

Osteoporosi

Le donne che hanno fatto sport in età puberale e che continuano a farlo nella vita adulta hanno molte meno probabilità delle sedentarie di sviluppare osteoporosi nell’età post-menopausale. Ciò è dovuto al fatto che la forza muscolare e le tensioni sviluppate dal muscolo sull’osso ne aumentano la solidità attraverso una maggior attività delle cellule che depongono matrice ossea, gli osteoblasti.

Gli sport in cui c’è un ripetuto impatto con il terreno, come la corsa, il tennis, il basket, la pallavolo, la camminata, sono quelli più efficaci nello sviluppare il picco di massa ossea in età giovanile e nel prevenirne la perdita in età avanzata. Gli esercizi con i pesi sono indicati in quanto, rinforzando la muscolatura, contribuiscono ad incrementare la tensione che i tendini trasmettono alle ossa e ciò serve a mantenere la compattezza della struttura.

Una maggiore compattezza dell’osso previene inoltre il rischio di fratture che, nella donna anziana, rappresentano una complicanza molto frequente delle cadute (articolo scientifico di riferimento).

Infine, anche in questo caso bisogna parlare di alimentazione. Diete povere di vitamina D e calcio favoriscono l’instaurarsi della patologia e così pure l’assunzione di alcool ed il fumo di sigaretta.

Dove si può fare esercizio-terapia a Torino?

[button color=”blue” size=”small”]More[/button]

[list type=”plus”]

[/list]

Nome: Fabio
Team Vitalia dal: 2011
Formazione: Laurea in Fisioterapia, sta conseguendo laurea magistrale in Scienze della Riabilitazione

[separator]

Di che cosa ti occupi?

Ho fatto corsi di RPG, Kinesio Taping, tecniche osteopatiche ed altri ancora e mi interesso di problematiche posturali ma soprattutto di pazienti ortopedici. Seguo giovani sportivi che hanno appena subito un intervento chirurgico. Curo la fase acuta post operazione, per permettere loro di tornare alla vita normale.

I tuoi pazienti hanno il morale a terra…

Già. Per questo durante il trattamento riabilitativo cerco di instaurare un rapporto molto umano: andare al di là della riabilitazione aiuta moltissimo il paziente sotto il profilo psicologico.

Anche tu sei uno sportivo?

Sì. Gioco a calcetto con gli amici e vado a correre.

Come lavora il Team Vitalia?

C’è una collaborazione molto stretta tra di noi. In modo particolare io mi confronto tantissimo con il Dott. Massarini perché seguo la parte acuta post intervento. In questa fase – ma non solo – il rapporto con le figure mediche (ad esempio l’ortopedico che ha operato un nostro paziente) è costante e giornaliero. Lo scambio di informazioni tra me, Claudia o Eva, il dott. Massarini e il chirurgo è molto importante per il paziente: non viene mai abbandonato e cerchiamo di gestirlo nella sua globalità. Quando ho finito la mia parte tocca a Claudia ed Eva iniziare l’attività di recupero in palestra.

Perché hai scelto questa “squadra”?

Mi sono piaciute le persone che ne facevano (e ne fanno) parte. Sono contentissimo di lavorare qui: mi trovo bene.

 

[button color=”blue” size=”small”]More[/button]

[list type=”plus”]

[/list]

Nello sport più arrivi in alto più e più è difficile gestire le situazioni. I grandi atleti chiedono la massima professionalità e discrezione, collaborano con poche persone e di fiducia. Si deve saper dire la parola giusta e non dire quella sbagliata; esserci quando serve e diventare invisibili quando è ora. È l’errore di molti colleghi, pur bravi: durano poco perchè non sanno dominare l’aspetto emotivo e parlano a sproposito”.

Devi saper riconoscere le occasioni: “devi”, non puoi sbagliare. Il tempo, il luogo, quel tempo, quel luogo…“in certi ambienti” si annusano. “Bisogna avere la capacità di starci, in certi ambienti”.

Fabrizio Borra

Fabrizio Borra è uno dei fisioterapisti più stimati in Italia, da venticinque anni: “arrivare in alto è dura, ma io sono stato fortunato e ho fatto in fretta. Il problema è rimanerci: basta un errorino per precipitare. Ci si deve aggiornare continuamente”. Fabrizio è un osservatore, uno che guarda da tutta la vita: suo fratello maggiore già fisioterapista, poi gli americani innovatori, i cestisti di Forlì, i ciclisti in salita, le Ferrari in giro per il mondo. Quello che impara sperimenta, su muscoli d’oro: quelli del cecchino Bob McAdoo, di Pantani, Cipollini, Basso, Fernando Alonso, Fiorello, Jovanotti. Dal 1988 studia i campionissimi:

Gli atleti devono esasperare il loro corpo, farlo rendere al 110%. Devono andare al limite di loro stessi: è un obbligo. È lì che li accompagno.

Fabrizio, “Fisiology” è un centro frequentato da persone normali e olimpionici. Come conciliate esperienze così lontane?

Abbiamo un presupposto tecnico preciso: il metodo per trattare il mio vicino di casa e l’atleta professionista è lo stesso. Cambia il dosaggio. La persona normale parte da un basso grado di disabilità, dovuto ad una patologia, e deve recuperare la capacità di svolgere le sue attività quotidiane; l’atleta vuole guarire e migliorare la sua performance. Il razionale è uno solo: sono diversi gli obiettivi. Per portare in alto l’atleta devo trovare soluzioni innovative: se l’esperimento funziona ho una nuova tecnica con cui aiutare gli altri pazienti. In questo modo sono sempre stimolato a fare ricerca e offro trattamenti d’avanguardia.

Concretamente, di che cosa ti occupi?

Sono un fisioterapista, non un preparatore, non un medico. Nel mio centro ci sono questi profili, ma ognuno fa la sua parte: io curo la salute a livello fisioterapico. A seconda delle circostanze devo declinare il mio ruolo, ma la premessa è comune: un atleta è come una macchina da corsa (una persona comune è un’auto stradale) e gli aspetti strutturale, scheletrico, muscolare, tendineo costituiscono la meccanica della macchina; la prestazione è il motore; la testa è la centralina, su cui posso agire in due modi: neuromuscolare e psicomotivo. Posso seguire la macchina a 360°, com’era con Pantani ed ora è per Alonso; oppure valutare solo la carrozzeria e il bilanciamento: per i ciclisti, ad esempio, mi limito alla biomeccanica posturofunzionale. Poi tocca al preparatore atletico agire sulla performance.

La tua giornata tipo?

La mia base è “Fisiology” a Forlì e viaggio per alcuni pazienti. Pantani e Alonso mi chiedevano un impegno di 250 giorni l’anno: un ritmo troppo intenso, per me, oggi! Proprio per questo ci dividiamo i compiti con suo cognato Edoardo Bendinelli.

Fabrizio con Alonso

Segui Alonso da dodici anni. Com’è cresciuto?

Aveva diciott’anni quando ci siamo conosciuti: era un ragazzino. Ha capito che il rapporto poteva svolgersi non solo sul piano fisioterapico ma anche su quello umano. Abbiamo creato un’équipe di specialisti con cui interagire a seconda delle necessità: gli atleti come lui preferiscono relazionarsi con un unico riferimento. Il legame si è stretto e alla stima si è aggiunta l’amicizia.

Come si allena un pilota di Formula 1?

Ha due esigenze: innanzitutto deve avere tutte le capacità di base portate verso l’alto, come la forza e la capacità cardiovascolare. È facile con Fernando: gli piacciono tutti gli sport e non sta mai fermo. Ma un atleta come lui ha sempre bisogno dello stimolo della competizione: con gli altri o con se stesso, dev’esserci la componente agonistica. Gioca a calcio, nuota, corre e va tanto in bici (15mila km all’anno): gli è molto utile il ciclismo perché impara a gestirsi (deve tornare a casa: anche dopo 130 km!) e le strutture sono in scarico. La seconda caratteristica da affinare è la capacità di controllo neuromuscolare per combattere la forza centrifuga. Le monoposto sono pezzi di carbonio lanciati sull’asfalto: le sollecitazioni sulla colonna sono spaventose e bisogna investire molte energie sulla funzionalità globale e sull’addestramento delle abilità.

E le sollecitazioni al collo sono ancora un problema?

Le macchine sono cambiate rispetto a cinque anni fa, quando faticavano soprattutto le braccia e il collo. Oggi è cambiata l’aderenza e grazie all’idroguida il volante si governa con un dito. I nuovi mezzi richiedono una straordinaria lucidità mentale: bisogna memorizzare gli schemi e abbassare i tempi di reazione. Non c’è tempo per pensare in Formula 1, quando lo fai è già tardi. Le manovre vanno sottocorticalizzate, cioè l’impulso deve essere immagazzinato nella parte più profonda del cervello perchè diventi un automatismo: l’unico sistema è ripetere i gesti sui simulatori.

Anche il ciclismo ti ha dato soddisfazioni.

Sono stati da me molti dei migliori degli ultimi anni: Cipollini, Basso, Bettini, Cancellara, Bennati… Ma l’esperienza più forte della mia vita ha un nome ed un cognome: Marco Pantani.

Marco Pantani

18 ottobre 1995, Milano-Torino: frattura di tibia e perone frammentaria esposta.

Fu la mia più grande scuola. Lo rieducai grazie a quanto appreso in America e ad un delicato lavoro multidisciplinare: coordinai una squadra di esperti per rimetterlo in sella. Tornammo in alto, all’apice del successo: vinse il Giro e il Tour, ci sembrò di sfiorare la punta del cielo. Poi il crollo: aveva toccato il fondo. Non ci fu modo di aiutarlo, la crisi lo portò all’autodistruzione. In dieci anni accompagnare il tuo atleta dal cielo al cimitero: sono cose che ti porterai dentro.  È stata una lezione durissima.

Le tue mani hanno massaggiato i più forti. Che cosa c’è nel corpo di un campione?

Un fisico allenato dall’infanzia e poi testa e talento. Un buon atleta ha un buon talento e una buona testa. Un campione ha un grande talento e una grandissima testa.

Che cosa pensi dei mental coach?

Secondo me un vero campione non ne ha bisogno: non può essere dipendente – a livello mentale – di un altro.  È giusto che i giovani siano aiutati a crescere in fretta anche nella psicologia e nell’emotività, ma ad un certo punto bisogna saper fare da sé: il campione ce l’ha dentro, il mental coach. Non ha bisogno di sostituirlo ogni due anni… In alcuni momenti specifici può farsi aiutare, ma dev’essere padrone di se stesso: sarà la sua determinazione a fare la differenza.

I tuoi “numeri uno” non sono solo atleti, ma anche uomini dello spettacolo. Perché vengono da te?

Ho cominciato con Jovanotti nel ’97, mi chiese qualche dritta per preparare la sua tournée. I suoi concerti sono molto fisici, si muove come un matto, le date sono vicine e non ha un attimo di tregua: doveva imparare a recuperare in fretta. La collaborazione continua ancora oggi. Fu un amico comune a presentarmi Fiorello, che non riusciva a superare un dolore alla spalla. Anche con lui la relazione si è consolidata: su Twitter mi aveva definito come il suo “ansiolitico”.

Jovanotti scatenato sul palco

Come sei arrivato fin qui?

Ho iniziato per colpa del mio ginocchio: ero stato operato ma non riuscivo a riprendermi. Mio fratello aveva una palestra a Brescia (la mia città) e andavo da lui per la rieducazione: volevo capire perché il ginocchio non funzionasse. Dovevo ancora finire le superiori. Mi appassionai e decisi di iscrivermi al corso di massiofisioterapia. Mio fratello mi permise di fare pratica mentre studiavo e questo mi diede una marcia in più.

Mister Maifredi ti volle subito al suo fianco.

Dopo poco. La mia fortuna fu che a quel tempo il Brescia aveva due squadre (calcio e basket) nelle massime serie. Ebbi da subito contatti con i rispettivi massaggiatori e imparai tantissimo. Poi Maifredi mi prese “in custodia” per alcune fortunate avventure: tra queste le stagioni con Ospitaletto (C2) e Bologna (B). Anche un amico che correva in macchina, Alex Caffi, mi volle con sé quando approdò in Formula 1. Intanto continuavo con la pratica da mio fratello ed era nato mio figlio: mia moglie mi voleva a casa, viaggiavo tropp

Il segreto era cambiare casa!

Mi chiamarono a Forlì, nel 1990. Era arrivato dall’America il giocatore più forte del momento, veniva a chiudere la carriera da noi e voleva un terapista: era Bob McAdoo, stella dei Lakers, che avrebbe dato una svolta alla mia formazione. Mi diceva: “Tu sei un buon trainer – l’equivalente della mia figura in NBA- ma devi andare in America!”.

Sei salito su un aereo?

Non me lo potevo permettere! A fine anno mi regalò lui i biglietti per Los Angeles, e una spinta per un tirocinio con i Lakers. Con il suo nome si aprirono le porte, ma c’era spazio solo per un apprendista-tuttofare: ci andai d’estate, per la Summer League. Al mattino stavo in clinica, il resto della giornata con la squadra. Portavo le borracce, gli asciugamani, pulivo i parquet. Tornai per diverse estati, nel frattempo era nata un’amicizia straordinaria con Gary Vitti, il trainer dei Lakers (ormai, dopo vent’anni, è diventato il mio “fratello” americano) ed era lui ad ospitarmi.

Gary Vitti con Bryant

Gli americani erano più bravi?

Nella traumatologia erano e sono tra i migliori al mondo. Allora poi i loro libri non si trovavano in Italia e venivano tradotti dopo tre o quattro anni, quando loro avevano già inventato nuove tecniche. L’unico modo per essere aggiornati, prima di Internet, era andarci.

In quello spogliatoio c’era gente tipo Magic Johnson…

Era il posto più bello del mondo per uno del mio mestiere. Pur di rimanerci ero disposto a tutto. Non mi sono mai pesati i lavori umili, non mi sono mai vergognato. Oggi i neolaureati sono tutti dottori, nessuno ha voglia di sporcarsi le mani: ma la gavetta è un passaggio fondamentale!

A che punto è la fisioterapia in Italia?

All’estero ci sono una cultura e un know how che noi ci sogniamo: qui siamo fermi ai protocolli. Ai convegni io spiego il razionale, non l’esercizio: invece i rieducatori italiani vogliono gli esercizi. Ecco il nostro limite: l’esercizio si misura sul paziente, non esistono protocolli. Nella mia ottica il paziente ha un percorso soggettivo: rispetto i tempi che mi dà il chirurgo e divido il percorso in fasi, come delle tappe. Passo alla successiva solo quando si è raggiunto il traguardo della precedente. Controllo le risposte del paziente e formulo gli esercizi ad hoc: devo capire ogni giorno di che cosa ha bisogno. Oggi pochi hanno voglia di pensare…

Anche tu fai parte del Team Technogym Ability Training, insieme al dott. Massarini. Dove volete arrivare?

Siamo un gruppo di professionisti che si sono tolti le loro soddisfazioni e ora vogliono provare a cambiare le cose, con una rivoluzione culturale: noi crediamo il movimento sia costituito dalle abilità di base, quindi ogni allenamento deve essere strutturato per migliorarle. Dopo un infortunio è necessario recuperarle tutte. Anche Massarini ne è convinto – del resto collaboriamo da una vita – e il metodo Vitalia è lo stesso che uso io. La mia rieducazione è più esercizio che lettino (per il 90% dei colleghi essa è esclusivamente lettino): l’esercizio è la soluzione alla maggior parte dei problemi!

[button color=”blue” size=”small”]More[/button]

[list type=”plus”]

[/list]

Davide Canavesio, CEO Saet Group, ex Presidente Gruppo Giovani Industriali, anima di Rena, Yes4To, Torino Strategica, imprenditore vulcanico ed esplosivo motore del cambiamento torinese, ci racconta la sua prima maratona di New York. Preparata in due mesi di telefonate con Vitalia nei i ritagli di un’agenda fitta fitta; nel cuore la Grande Mela e una convinzione: le idee hanno bisogno di correre. Ed arrivare al traguardo. Davide Canavesio

Azienda, associazioni, fidanzata, amici. Vivi di corsa o corri da sportivo?

Sono cresciuto giocando a calcio e a tennis, mi piace sciare: in generale ho un ottimo rapporto con la fisicità. Mi sono sempre considerato uno sportivo ma purtroppo il mio lavoro adesso mi lascia pochi spazi per allenarmi: mi è rimasto il golf, che almeno mi costringe a camminare tanto.

Ti piacciono gli sport individuali.

Sì. Sono sempre in mezzo alla gente e nel golf devi stare con te stesso, in silenzio e con concentrazione altissima. Mi aiuta a svuotare la mente e compensare un po’. Come la corsa.

Qual è il tuo percorso di podista?

Ho appena cominciato: lo scorso anno mi sono iscritto alla maratona di NY. Partivo da zero. Mi sono allenato, sono salito su un aereo, l’hanno annullata e sono tornato indietro. Allora mi sono iscritto a quella di Torino e ho concluso i miei primi 42 km in 4h16′. Poco dopo ho smesso di correre e ho riniziato il 2 settembre: ho un appuntamento in sospeso con NY!

Si può preparare una maratona in due mesi?

Non ho velleità agonistiche: la mia unica sfida è arrivare al traguardo. Vorrei capire se posso finirla! E poi godermi la festa: vado con la mia fidanzata e alcuni amici. Sono giorni di riposo e famiglia.

Come ti sei allenato?

Ho passato due mesi di vita religiosa: niente alcool, niente Toscanelli (i miei amati sigari), nutrizione rigorosa. Solo per la maratona si possono fare sacrifici così!

Che sostegno ti ha dato Vitalia?

Con il dott. Massarini abbiamo pensato un piano di sedute da adattare ogni giorno in base ai miei impegni. Mi sono limitato alla corsa perchè non avevo abbastanza tempo per integrarla con la ginnastica. Prima di cominciare mi sono sottoposto a un test del lattato, poi ho corso 3-4 volte alla settimana tra gli 8 e i 12 km in maniera diversa. Nei week end mi sono tenuto i lunghi, in una serie crescente da 12 a 30 km: 12, 16, 20, 26, due volte i 28, poi i 30 due settimane fa. Da allora la fase di scarico, con qualche sgambata ma nulla di più. Il dott. Massarini ha seguito i miei progressi grazie alla piattaforma Garmin Connect.

Cioè?

Dopo ogni corsa caricavo i dati del mio Garmin sul mio profilo e li condividevo con Massarini. Così lui poteva analizzarli e modificare il programma ad hoc. E’ nata un’ottima collaborazione: ci siamo sentiti al telefono quasi quotidianamente, senza bisogno di incontrarci!

marathon_new_york

Che cosa farai da lunedì?

Mi riprometto di continuare a correre!

Ti sei occupato di giovani per l’Unione Industriale e continui a farlo in altre realtà. Quanto conta lo sport nella formazione di un ragazzo?

Credo che abbia ancora una funzione educativa. E’ fondamentale sia nella crescita sia quando da adulti bisogna imparare a districarsi tra mille cose. Lo sport insegna la disciplina: una marcia in più per i ventenni che oggi sono in difficoltà a causa della crisi. E poi non è solo svago, è un’occasione per cambiare prospettiva: soprattutto nei momenti complicati trovare quell’ora per stare in pace con se stessi serve a liberare la testa…

Torino sarà capitale dello sport nel 2015. Da imprenditore, che cosa vorresti per la tua città?

Torino ha vissuto i fasti con le Olimpiadi, ma adesso bisogna dare continuità. Non bastano i singoli eventi: bisogna costruire un circuito di iniziative, un “sistema sport” che proponga un’offerta sempre interessante. Vedo che nel settore running qualcosa si muove, ma manca un progetto integrato. Si scelga un filone e si provi a svilupparlo a 360°, nelle sue varie fasi. Un po’ come si sta facendo con il cinema: dal museo al TFF, alle riprese, alla post produzione: turisti e imprese hanno motivi per visitarci e investire! Guardiamo al modello newyorkese: si sono specializzati nel settore e oggi la maratona muove centinaia di migliaia di persone.

Che ricordo hai di Torino 2006?

Lavoravo all’estero e sono tornato apposta per andare allo stadio alla cerimonia d’apertura dei Giochi. La cosa che mi ha stupito più di tutto? I volontari che ti abbracciano. I volontari delle Olimpiadi sono migliaia di cittadini, tra cui tantissimi giovani, che si impegnano gratis per un progetto. Che bello vedere una cittadinanza attiva!

[button color=”blue” size=”small”]More[/button]

[list type=”plus”]

[/list]

24 settembre 2006, Maratona di Torino. Il primo europeo, undicesimo assoluto, si chiama Alessandro Giannone. Oggi fa correre gli altri: è il Direttore Tecnico di Base Running Team, 450 podisti da allenare e una task force con cui organizzare almeno cinque grandi gare all’anno.

Quando hai iniziato a correre?

Dal 1988 (avevo 14 anni) al 2000 ho gareggiato su pista, con buoni risultati a livello nazionale. Poi a 26 anni sono approdato all’attività su strada. Ho aumentato il chilometraggio e mi sono concentrato su mezza maratona e maratona. Il mio miglior piazzamento è stato quello di Torino, nel 2006.

giann

Chi erano i tuoi modelli da ragazzo?

Ho vissuto l’atletica negli anni dei grandi campioni, quando noi italiani vincevamo le Olimpiadi. Ho avuto la fortuna di correre con numeri uno come Gennaro Di Napoli, di crescere mentre Bordin, Antibo e Panetta incantavano il mondo con le loro imprese. Se proprio devo scegliere le emozioni più forti me le ha regalate Gelindo Bordin. Ma il periodo d’oro degli italiani è durato solo fino al 1995.

Oggi non ci sono campioni in azzurro?

Purtroppo soprattutto nel mezzo fondo prolungato siamo deboli, perché c’è stata poca continuità negli anni. L’ultimo a vincere è stato Stefano Baldini ad Atene nel 2004. Dopo di lui non siamo riusciti ad essere molto competitivi, tranne qualche comparsa: grossi atleti però non ne vedo. Gli unici due sono Lalli e Meucci: sono due talenti. Potrebbe rappresentare il futuro della nostra maratona.

Tu hai smesso di gareggiare?

Non del tutto, ma ho dovuto rallentare molto il ritmo degli allenamenti. Il lavoro di allenatore e organizzatore di eventi da qualche anno è la priorità. Nel 2007 ha aperto il negozio, nel 2008 abbiamo fondato il Base Running Team, ereditando la squadra di Sport City di Alessandro Rastello. Insieme siamo cresciuti da 30 elementi a 450 in cinque anni: proponiamo due allenamenti collettivi nei due parchi principali della città, il Valentino e il Ruffini. Dividiamo i runners in gruppetti a seconda della velocità: così ognuno può crescere con le indicazioni degli allenatori ed è stimolato dal confronto con i compagni.

Perché sessioni collettive, se la corsa è uno sport individuale?

Perché può essere un po’ noiosa, sopratutto quando le sedute sono lunghe e frequenti. Il gruppo è un ottimo incentivo per non scoraggiarsi e arrivare fino in fondo: il piacere della corsa si sente dopo la fatica.

Possono iscriversi anche i neofiti?

Certo. Abbiamo un allenamento apposta per loro, di avviamento alla corsa, il mercoledì. E stiamo provando a strutturarci anche a livello giovanile: ci piacerebbe istituire una Running School. Speriamo che sia pronta per il 2014!

Com’è cambiato il podismo in questi anni?

Una volta eravamo di meno ma la maggioranza aveva velleità agonistiche. Oggi tantissimi corrono solo per stare bene o per piacere. E’ evidente se guardiamo le scarpe. Le tipologie sono aumentate, perché sono aumentati i tipi di corridori: ci sono, ad esempio, molte persone di peso medio alto che iniziano a correre. Per loro servono scarpe più robuste e sostenute. In generale, le calzature sono diventate più tecniche ma anche più delicate: durano meno.

Si spende ancora per i materiali o la crisi ha costretto a tagliare anche su quelli?

No. Gli appassionati investono volentieri perché conoscono l’importanza di avere la scarpa giusta nei piedi. E quelli che sono alle prime armi se ne accorgono subito: escono un paio di volte con quello che hanno in casa, poi si fanno male e allora vengono da noi. Ogni cliente ha le sue caratteristiche: ci sforziamo di consigliare la scarpa più adatta.

volantino-base

Il 13 ottobre è il giorno de “Una corsa da re”. Siete pronti?

Sì! La prepariamo dall’estate. E’ una manifestazione complessa, perché comprende tre corse in un solo giorno. Sono previsti, com’è stato lo scorso anno, 5000 partecipanti. Ho potuto contare su uno staff tecnico molto valido oltre che su i nostri straordinari volontari.

Quali altre manifestazioni gestite?

La “Valentino“, una gara serale in estate (l’ultima lo scorso 4 luglio). Poi la “LingottoRun” (il prossimo 10 novembre), la mezza “Un Po di corsa” (15 dicembre), la “RunTogheter” in occasione del derby Juve-Toro (23 febbraio 2014). Tutte le informazioni sono online sul nostro sito.

E’ più difficile allenarsi per una maratona o organizzarla?

Sono sensazioni diverse: la gestione di un evento richiede un grande impegno mentale, paragonabile a quello fisico di chi corre. E quando vedo che va tutto bene, che tanta gente lavora… beh, mi dà la stessa soddisfazione di un risultato ottenuto con le mie gambe.

Che cos’hanno in comune Vitalia e Base Running? 

La qualità del servizio: ottimo da entrambi!

[message type=”info”] La prossima settimana pubblicheremo i consigli per preparare al meglio la “Corsa da re”. Tenete d’occhio i nostri canali social: la pagina Facebook e il profilo Twitter Vitalia Informa. [/message]

[button color=”blue” size=”small”]More[/button]

[list type=”plus”]

[/list]

[message type=”info” title=”Speciale WMG”] Il nostro viaggio nei World Master Games di Torino comincia da Roberto. Lettore di Vitalia Informa, un giorno ci ha scritto su Twitter: è il primo “paziente web” di Vitalia. Chissà che i nostri consigli non lo portino sul podio… sicuramente la sua passione è da medaglia. In bocca al lupo! [/message]

Roberto Re, classe 1974, è un atleta polivalente: sottratto al calcio dall’ennesimo infortunio (giocava nei Dilettanti), prestato al golf, negato alla corsa dalla medicina ma podista nel cuore, ciclista, nuotatore e sciatore. Un uomo infine redento dal Triathlon: “Avevo bisogno di una sfida”.

Calcio, golf e atletica. Che sportivo sei?

Quando ho smesso di giocare ho iniziato a correre da amatore. Ma le mie ginocchia non hanno retto e tre anni fa, per pigrizia, mi sono dato al golf: non avevo voglia di affrontare il mio problema né di cominciare la riabilitazione. Poi sono andato da uno specialista, che mi ha parlato chiaro: “tu non puoi più correre, le tue ginocchia non ce la fanno”.

Ed è crollato il mondo.

No. È scattata la molla. Ho pensato: “Adesso ti faccio vedere che posso correre e anche ad un buon livello”. Ho recuperato con la fisioterapia e ho puntato alla maratona. Poi mi sono ridimensionato: per il mio problema era troppo. Dovevo trovare una sfida ma evitare la corsa esasperata. Così ho scelto il Triathlon: mi piacevano bici, corsa e nuoto e mi sono innamorato subito.

SOMMARIVA - Copia

Come ti alleni?

Mi segue Andrea Gabba, tecnico della nazionale turca. Avevo bisogno di capire come impostare la preparazione: ho iniziato un percorso che prevede sei sessioni a settimana. Uso il giorno di riposo per allungarmi e aiutare la mia schiena con il Pilates.

Ti alleni quanto un professionista.

…ma devo portare avanti una famiglia e il lavoro mi impegna dalle 7 alle 7 tutti i giorni. Il Triathlon mi costa sacrifici enormi: pedalate in pausa pranzo o corse alle 5 del mattino o alle 10 di sera quando la bambina dorme. Noi amatori rispetto agli olimpionici dobbiamo metterci lo stesso impegno e la stessa fatica, ma in più combattere con i doveri di una persona normale: serve una grande passione.

Chi sono i tuoi modelli sportivi?

Nessuno di famoso, ma chi fa bene il proprio mestiere e “sacrifica” il tempo libero per lo sport.

Tra pochi giorni sarai in gara anche tu.

Sì, ho 39 anni e saranno i miei primi World Master Games. Li ho scoperti per caso un anno fa. Inizierò con il Duathlon, poi ci sarà il Triathlon la settimana prossima: non vedo l’ora. Si correrà al Valentino e sarò di casa, abito molto vicino e lo frequento spesso.

Il prossimo traguardo?

L’obiettivo, lontano –andiamo per gradi-, è l’Iron Man.

Ti piace sfidare i  tuoi limiti…

Ho lasciato il calcio a 25 anni: lo facevo solo per divertirmi. Mi piaceva il gioco e non la preparazione. Dopo i 30 anni è cambiato qualcosa (e lo vedo anche nei miei amici): dal bisogno di divertimento sono passato alla voglia di mettere alla prova il mio fisico.  È un nuovo approccio mentale all’attività sportiva, più complesso.

Il Triathlon ti impone un ritmo massacrante, mentre il golf è uno sport più statico, tanto che alcuni non lo considerano tale. Che idea ti sei fatto, praticando entrambi?

Lo spiego sempre così, con un’immagine. Dopo una giornata di golf ero stremato, non avevo neanche più la forza di uscire a cena. Dopo una gara di Triathlon sono contento, eccitato, stanco, ma non esausto. Con una doccia sono pronto per la serata! Nella mia vita è stato più faticoso il golf: richiede uno sforzo mentale e quindi fisico pazzesco. Nessuno mi crede mai…

Come hai conosciuto Vitalia?

Girovagando su Twitter. Ho visto che state seguendo i WMG e poi  ho trovato qualche link al vostro blog. Ho letto alcuni articoli e mi sono piaciuti. Bravi!

Sei uno sportivo 2.o?

Abbastanza. Seguo soprattutto blog e forum sul Triathlon e la corsa, e dove sono competente cerco di partecipare. Il web è una grande risorsa per imparare e migliorarsi, anche nello sport.

RyderInvitational2012PiedQS_08 (1)

Il caffè è bevanda antica dai camaleontici aspetti. Associato molto bene all’idea del momento di relax ufficiale (il famoso coffee break di cultura anglo-americana, l’amichevole chiacchiera al bar o in casa della partenopea “tazzulella ‘e cafè”), fino a poco tempo fa esso era più vicino allo sport guardato o letto che a quello praticato.

E invece le cose cambiano, le idee evolvono ed ecco emergere un volto diverso della tradizionale bevanda: un volto capace di migliorare le prestazioni sportive degli atleti impegnati sia nelle discipline di resistenza che in quelle a maggior impegno neuromuscolare.

coffee-image

La caffeina, che è “l’anima attiva” del caffè, è infatti una sostanza blandamente stimolante in grado di attivare il sistema nervoso centrale e di migliorare la funzionalità cardio-respiratoria ed il metabolismo dei grassi.

Detto ciò, è facile capire che possono bastare 60-80 mg di caffeina, quanta ce n’è in una, due tazzine, per migliorare l’attenzione e la capacità di concentrazione. Quali sportivi si avvantaggiano di questi effetti? Senz’altro quelli che praticano sport che richiedano velocità di decisione e capacità di risolvere situazioni complesse. Ecco quindi che il golfista, il calciatore, o il giocatore di tennis o di basket, possono beneficiare degli effetti di un buon caffé prima della competizione.

Chi invece pratica sport di resistenza conosce bene gli effetti del caffé sulla prestazione di lunga durata. Assunta prima e durante la competizione, la caffeina favorisce l’utilizzo dei grassi come fonte di energia e quindi permette di prolungare la capacità di sforzo risparmiando il prezioso carburante rappresentato dagli zuccheri che sono contenuti nel fegato e nei muscoli.

A livello cardiaco aumentano sia la frequenza che la gittata sistolica e quindi il cuore è in grado di portare ai muscoli una maggior quantità di sangue ossigenato. Al contempo, la muscolatura delle vie respiratorie si rilassa permettendo una migliore ventilazione.

Nelle gare che durano molte ore, come ad esempio le gran fondo di ciclismo, l’assunzione del caffè aiuta a superare la stanchezza ed ad avere le energie che servono per il finale.

Comunque sia, meglio non esagerare: la caffeina può aumentare la diuresi favorendo il rischio di disidratazione. E’ quindi una buona regola non superare i 2-3 caffè nell’arco della giornata sportiva, anche perché, per dover di informazione bisogna dire che l’equivalente di 6-7 tazzine basterebbe a far squalificare un atleta per doping secondo le regole della commissione medica del CIO.

C’è da considerare, poi, l’aumento di metabolismo che il caffè potrebbe provocare e che aiuterebbe coloro che devono smaltire qualche chilo di troppo. In effetti, la caffeina produce un aumento del metabolismo basale senza reali controindicazioni, il solo problema è rappresentato dal fatto che, per avere un innalzamento del metabolismo del 10-15% e quindi per aumentare la spesa calorica di circa 200 kcal in una persona di 70 kg, è necessario assumere circa 5-7 caffè al giorno.

 Buon caffè a tutti!