Test di soglia: perchè misurare la soglia anaerobica?

Corsa, ciclismo, triathlon, trail running, scialpinismo: che cos’hanno in comune gli sport di resistenza? La fatica e la bellezza. Ma anche il metodo: in tutte queste discipline è vietato improvvisare. Occorre valutare il motore dell’atleta con test specifici e adeguare gli allenamenti e gli obiettivi alle capacità di ciascuno. [Foto Credits Federico Ravassard]

Perché misurare la soglia anaerobica

Capita molto spesso di allenarsi con impegno e dedizione e di non raggiungere tuttavia i risultati sperati, capita di avere dei cali di prestazione, capita di finire le energie durante la gara a cui si teneva particolarmente. Questo perché negli sport di resistenza è fondamentale conoscere quanto più precisamente possibile le caratteristiche individuali. Sapere cosa chiedere al proprio fisico è fondamentale per impostare il ritmo della competizione e per arrivare alla fine ancora in buone condizioni. Gli studi dimostrano che per raggiungere lo scopo c’è un solo metodo: effettuare un test di valutazione come il test di soglia (o test del lattato). usarne i risultati in maniera organizzata. 

La valutazione

Attraverso i test di valutazione sarà infatti possibile pianificare l’allenamento in maniera personalizzata e finalizzata al tipo di gara che si intende affrontare. Il test più significativo per capire come “gira il motore” di un’atleta di endurance è il test di soglia anaerobica mediante la misurazione del lattato ematico (potete approfondire leggendo questo articolo o con il video della prova nel nostro ambulatorio).


La prova è finalizzata ad individuare con la massima precisione le velocità di corsa o la potenza di pedalata (nel caso del ciclismo) a cui si possono impostare le diverse intensità di allenamento: fondo lungo, fondo medio, soglia anaerobica. Il test di soglia permette quindi di costruire un grafico in cui frequenza cardiaca e lattato ematico sono in funzione della velocità o della potenza espressa.

L’interpretazione

Precisiamo subito che non esistono interpretazioni “assolute” dei valori ottenuti, in quanto essi vanno analizzati in funzione dello sport o della competizione in cui si deve gareggiare.
Per fare alcuni esempi, il nostro organismo deve essere allenato diversamente se l’obiettivo è una maratona o una gara di 10 km, oppure una granfondo di ciclismo. Inoltre, i dati ottenuti dovranno inoltre essere “letti” in base al livello dell’atleta: un podista di buon livello correrà la mezza maratona a velocità simili o poco superiori a quella della soglia anaerobica, mentre un amatore di livello basso dovrà scegliere un ritmo compreso tra il medio e la soglia.

Non basta eseguire il test: occorre analizzarne i risultati e pianificare l’allenamento di conseguenza

 

Se nella corsa il ritmo di gara sarà all’incirca costante, ben diversa è la situazione nel ciclismo dove le caratteristiche altimetriche del percorso detteranno le intensità di sforzo. In una gara con salite brevi sarà quindi possibile superare per alcuni minuti l’intensità di soglia mentre su tracciati con salite lunghe sarà indispensabile non oltrepassare questi ritmi per evitare di trovarsi in crisi. Il concetto di soglia anaerobica è infatti collegato al tipo di metabolismo attivato dall’organismo per produrre energia: per intensità inferiori a questo limite le energie vengono prodotte dalla combustione di una miscela di grassi e zuccheri che si arricchisce di questi ultimi all’aumentare dell’intensità. È pertanto chiaro che se si sovrastimano le proprie capacità ci si possa trovare in riserva di energie e la conseguenza sarà un drammatico calo della prestazione. Questo momento di crisi è stato descritto come il “muro” contro cui il maratoneta rischia di “sbattere” oltre il trentesimo km o la crisi di fame che assale il ciclista nelle granfondo. Qualunque sia, il calo di prestazioni ha la stessa meccanica: ritmo troppo elevato e conseguente esaurimento delle riserve glucidiche. Ecco quindi che per scongiurare questi rischi, la conoscenza delle proprie caratteristiche risulta preziosa per impostare allenamento e gara.

La pianificazione dell’allenamento

Il test del lattato definisce molto bene le capacità dell’atleta e quindi indica all’allenatore su quali metodiche e intensità impostare le sedute di preparazione. Facciamo alcuni esempi: il maratoneta o il triathleta (1/2 Ironman o Ironman) dovranno essere allenati a utilizzare quanto più possibile i grassi e ad accumulare quanto meno lattato possibile. Le loro prestazioni durano infatti diverse ore a ritmo costante senza sostanziali variazioni di intensità. La loro preparazione dovrà quindi essere impostata sul fondo lungo e medio e su lavori ad intensità progressiva fino alla soglia e su ripetute lunghe. In tal modo si allenerà la muscolatura al metabolismo aerobico.

L’interpretazione deve considerare la disciplina e il livello dell’atleta

 

Ben diverso sarà l’allenamento per una 10 km o per una gara di ciclismo di 50 km in circuito. In questi casi sarà importante preparare anche la capacità di mantenere ritmi di soglia e sopra soglia e quindi ci si dovrà allenare a queste intensità. In questi atleti, le caratteristiche fisiologiche sono diverse e permettono di esprimere quantità di lattato più elevate al termine della prova.

Il valore di riferimento della soglia anaerobica, che per molti coincide con le 4 mmoli, non può quindi essere considerato valido in assoluto ed il test deve essere interpretato su base individuale. Comunque, semplificando si può dire che negli atleti che compiono performance lunghe e a ritmo costante la soglia è di solito inferiore alle 4 mmoli, mentre negli atleti che gareggiano in prove di 60-90 min o con frequenti variazioni di ritmo e di intensità, il valore può essere anche superiore al dato di riferimento standard.

Una goccia di sangue prelevata dal lobo dell’orecchio è sufficiente per il test

 

Quando effettuare il test di soglia?

Considerando che le indicazioni sul livello di performance fornite dal test dovrebbero guidare la programmazione degli allenamenti, è consigliabile eseguire la prova a circa 2-3 mesi dall’evento agonistico a cui ci si sta preparando. Quest’arco di tempo consentirà di correggere eventuali lacune della preparazione e comunque di finalizzare al meglio il periodo pre-competizione. Un atleta di buon livello che affronta diverse gare nell’arco dell’anno dovrà ripetere la valutazione ogni 3-4 mesi per controllare lo stato di forma ed adeguare i carichi di lavoro consequenzialmente. E’ comunque importante che ogni test sia effettuato in situazioni costanti e quindi senza aver fatto allenamenti intensi o gare nei due giorni precedenti e soprattutto con lo stesso protocollo.

Il test di soglia va effettuato almeno 2/3 mesi prima della gara

 

Ciclisti, misurate la potenza

Una considerazione finale rivolta ai ciclisti riguarda l’utilizzo in bici dei dati ottenuti dalla prova: durante il test si misurano la FC ed il lattato in riferimento alla potenza erogata. I dati finali sono quindi indicativi delle potenze (in watt) da sviluppare ai vari ritmi di allenamento mentre la frequenza cardiaca può variare anche significativamente da un giorno all’altro (per approfondire c’è questa ricerca). E’ quindi importante poter disporre, sulla bici, di un misuratore di potenza che rilevi con precisione i watt erogati nella pedalata (ne abbiamo parlato qui). Solo in questo modo sarà infatti possibile utilizzare al meglio le indicazioni dal test di soglia.

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Tecnologia per il movimento, il futuro di Vitalia

Nuovo anno, nuovi progressi. Che cosa porterà il 2016 a Vitalia? Sicuramente ancora più tecnologia, numeri, analisi. Il futuro è studiare il movimento in modo sempre più preciso: nella nostra palestra è già presente. Ecco alcuni strumenti che abbiamo sperimentato negli scorsi mesi e siamo pronti ad usare con voi. 

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Lo skialper Filippo Barazzuol (qui la sua storia) al lavoro con Riablo

Si fissano i sensori al torace, alle cosce ed alle gambe, si inizia un movimento ed ecco che sullo schermo davanti a noi appare la nostra silhouette; adesso alziamo una gamba e vediamo che con lo spostamento del corpo facciamo passare un’oggetto attraverso un cerchio. Oppure saliamo su una tavoletta sensorizzata e facciamo uno slalom tra gli ostacoli del video spostando il peso da una gamba all’altra.

Prepariamoci a fare un salto da fermi, siamo in posizione, in mezzo a due barre sul pavimento che attraverso un fascio di luce a infrarossi calcolano quanto per quanto tempo ci stacchiamo da terra, due telecamere filmano il movimento e immediatamente è disponibile il video dell’esercizio pronto ad essere analizzato. Corriamo su un tapis roulant e lunghezza di ogni passo, durata dell’appoggio a terra, simmetria della falcata vengono calcolate e analizzate. Sono le nuove tecnologie, quelle che ci permettono di guardare il movimento, di misurare gli angoli delle articolazioni, di capire come vengono attivati i muscoli. Analizzare, correggere, migliorare.

Queste sono le direzioni verso cui stiamo andando e queste sono le nuove strade che ci piace percorrere per aumentare le capacità di curare e far tornare in attività i nostri pazienti. Il nostro obiettivo è cercare attrezzature innovative ma al contempo facili che, senza procedure complicate, permettano di aggiungere informazioni ad ogni seduta. Crediamo che la rieducazione al movimento debba inevitabilmente passare dalla ricostruzione di schemi motori che, partendo da movimenti semplici, arrivi all’esecuzione di esercizi sempre più complessi. Per raggiungere l’obiettivo, il biofeedback fornito da strumentazione e software fornisce un enorme aiuto al medico, al trainer ed al paziente.

Riablo, esercizi guidati e test

I cinque sensori inerziali di Riablo, ad esempio, si indossano con fasce elastiche e trasmettono i movimenti degli arti e del tronco ad un tablet o ad un PC via Bluetooth. Insieme alla pedana di pressione acquisiscono informazioni tridimensionali della persona che esegue l’esercizio. I dati vengono poi elaborati dal software e l’utente può vedere in tempo reale il proprio movimento sul video. Tutti i movimenti eseguiti dall’utente sono preparati e selezionati dal professionista: Riablo permette in modo semplice di guidare verso la perfetta esecuzione di ogni esercizio fornendo importanti elementi di valutazione del gesto.

Tra le varie funzioni disponibili, Riablo ne ha una particolarmente utile per il trattamento di pazienti infortunati al ginocchio. L’azienda produttrice, CoRehab, ha infatti rilasciato il software “Back in action”, una batteria innovativa di test composta da 7 esercizi (inventati assieme al FIFA Medical Center of Austria) per valutare la capacità di ritornare allo sport di un paziente che ha subito un intervento chirurgico di ricostruzione del LCA (legamento crociato anteriore). Tutti i risultati sono confrontati con dati normativi della stessa età e sesso del paziente e, se un solo test viene misurato al di sotto del valore di norma, l’indicazione fornita è che al paziente non è permesso tornare allo sport. Il test è anche ampiamente utilizzato come strumento di valutazione per gli arti inferiori dal momento che è in grado di misurare Equilibrio, Agilità, Forza e Velocità separatamente o insieme, fornendo una chiara indicazione su eventuali asimmetrie. Il test viene utilizzato da atleti e non in tutto il mondo, con particolare attenzione allo sci, al calcio, il basket e la pallavolo.

Lo usiamo anche noi di Vitalia: insieme a tanta altra tecnologia che ci permette di rendere il nostro servizio sempre più efficace e risolutivo.

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Jovanotti come i ciclisti, i segreti del suo Tour

C’è un lavoro silenzioso dietro i concerti esplosivi di Jovanotti. C’è, anche se non si vede. Al massimo si intuisce: dalle foto di Lorenzo su Instagram, da qualche video su Youtube. Il motore che lo fa scatenare sui palchi di mezza Italia ha un meccanico, anzi due: il fisioterapista Fabrizio Borra e il preparatore atletico Luca Borra, suo figlio. Fabrizio è uno storico amico di Vitalia, ha curato il top dello sport e degli spettacoli: da Alonso a Pantani, fino a Fiorello. Lo avevamo intervistato qui, stavolta siamo andati a trovarlo dietro le quinte delle tappe torinesi di “Lorenzo nei Palazzi”.

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Fabrizio, non parli mai con i giornalisti, per il blog di “Vitalia” fai eccezione?
Beh, è quasi un dovere, per seguire Jova il confronto con “il Doc” è molto utile.

Cioè?
Premessa: Lorenzo vive a New York, allenarlo a distanza non è proprio facile.

Come ci riuscite?
Abbiamo adottato la stessa tecnologia che usa Vitalia e che sfrutta un’app: “Omega Wave”. Funziona così: ogni mattina l’atleta indossa una fascia toracica, che grazie a un sensore ne valuta i parametri. Il sistema permette di capire se si è affaticati o se il lavoro del giorno prima è stato smaltito. È tutto informatizzato: ricevo i dati di Jova in Italia e definiamo il programma della giornata. Lo usiamo ogni giorno anche durante questo tour.

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Fabrizio Borra e il lettino torinese di Jova

Non sei solo un riabilitatore quindi.
Sono al suo fianco da vent’anni e mi occupo dei vari aspetti importanti per la sua condizione fisica: dalla schiena alla prevenzione di raffreddore e influenza, che sembrano un problema banale ma possono far saltare una tappa. Ovviamente il segreto è collaborare con tanti professionisti: dall’esperto della voce al medico dello sport. Chiedo spesso consigli a Massimo.

Jovanotti è un atleta?
Assolutamente sì. Metodico, preciso, determinato come i migliori che ho conosciuto. La stessa testa. E poi il movimento è una componente fondamentale della sua arte, lo usa per coinvolgere il pubblico. I suoi spettacoli sono una festa, la gente esce esausta: anche chi va per ascoltare finisce per ballare con lui. È il suo modo di fare musica.

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Quando parte non si ferma più.
Sono 2 ore e mezza di sforzo intenso: avanti e indietro su un palco di 100 metri quadri. Ha un po’ di recupero con i pezzi più lenti e i cambi costume. In quei momenti cerco di dargli qualche integratore.

A che tipo di gara si può paragonare una serata di Jova?
Più che la singola serata, il problema è il tour. Lorenzo ha 49 anni e nei palazzetti, ad esempio, farà 35 date in 50 giorni. Sono ritmi da Giro d’Italia o Tour de France. Nei giorni di “riposo” si viaggia, non c’è tregua.

Per voi cosa significa?
Lo gestiamo esattamente come si fa con i ciclisti: lo prepariamo bene prima dell’inizio e lo aiutiamo a recuperare durante la corsa.

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In camerino lo schema con gli esercizi di Jova. Ricordano i nostri!

Cosa prevede la preparazione?
Quando è in Toscana, a Cortona, tanta bicicletta, il suo sport preferito. A NY sarebbe impossibile e si esercita in palestra. Tutti i giorni un paio d’ore, su tre fronti: spinning, pilates e allenamento funzionale. Lo spinning serve per la capacità aerobica; il pilates, all’americana, cioè più dinamico del nostro, stimola la flessibilità. Il resto è per la forza. In pratica sviluppiamo tutte le abilità di base.

Ce n’è una su cui puntate?
Sì, dobbiamo esaltare la stabilità dinamica lombo-pelvica, la core stability, per intenderci. Questo perchè Lorenzo è alto e gran parte dei suoi movimenti sono saltelli, che sollecitano la zona lombare. Ha avuto parecchi problemi di schiena in passato. Nel suo programma di esercizi ci basiamo sul metodo del Technogym Ability Training messo a punto con Massimo e con “Cuzzo” (ndr Francesco Cuzzolin, intervista qui).

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Ti ha conosciuto per il mal di schiena?
No, vivevamo entrambi a Forlì e lui frequentava la mia palestra. Poi mi chiese una mano per il tour di quell’anno. Era il ’97 e già aveva capito l’importanza di curare la parte atletica. Un precursore…

E l’alimentazione?
È vegetariano: ma con pesce e uova reintegra le proteine. Dedica molte attenzione anche al cibo.

Torniamo alla ginnastica. Fa riscaldamento prima del concerto?
Una volta sì, ma abbiamo un po’ cambiato, non era tanto efficace. Adesso facciamo la “riattivazione” alle 18,30, cioè due ore e mezza prima della musica.

In cosa consiste?
È un circuito funzionale a basso impatto, con allungamento dinamico. Dura 35/40 minuti, lo prepara mio figlio Luca. Stiamo avendo ottimi risultati, Jova si sente meglio sul palco.

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E dopo lo spettacolo?
Il problema è recuperare velocemente. Quando finisce lo mandiamo nella vasca con il ghiaccio, una tecnica usata ormai in tutti gli sport. Così smorziamo le infiammazioni. Poi intervengo io, con la terapia manuale. Finisco all’una di notte.

È dura anche per te!
Impegnativo, come tutti i lavori. Anzi no: per me stare accanto a Lorenzo non è più un lavoro. Ormai c’è un rapporto di fratellanza.

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“Cuzzo”, i muscoli e le idee del basket azzurro

Intervista a Francesco Cuzzolin, cinquantun anni e una vita a canestro. Amico e sostenitore di Vitalia, è la mens della preparazione atletica del basket azzurro. Collabora con il “Doc” Massarini nel programma di ricerca e sviluppo di Technogym: un team di eccellenze impegnate a scrivere il futuro del movimento, le cui intuizioni giungono, tramite il “Doc”, fino in via della Rocca.

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Italia, Europa, America. Ha allenato i Toronto Raptors, la Russia, la Lettonia, la Virtus Bologna e la Benetton Treviso. Il suo curriculum è un giro del mondo, trent’anni di pallacanestro con una sola bussola: “la passione. Quella che cerco di trasformare in qualità del lavoro. Quella dei bravi professori: l’unica cosa che ti ricorderai dopo la scuola”. Insegnare, imparare: per “Cuzzo” – come lo chiamano i suoi ragazzi – è la quotidianità. Dal 2011 preparatore fisico della nazionale maggiore, è anche responsabile dell’intero settore per la Fip e cura la formazione dei tecnici.

Cuzzolin, che fa il preparatore della nazionale quando la nazionale non gioca?

Viaggia. Sono appena tornato da New York, per vedere Bargnani nei Brooklyn Nets. Tra poco ripartirò per Denver, per Gallinari; quindi Sacramento, per Belinelli. Seguiamo i giocatori anche nei club, per coordinarci con il loro staff. La stagione degli azzurri dura due mesi, ma va preparata per un anno intero, studiando le realtà da cui provengono. E poi confrontarci ci fa bene.

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Insomma riuscite ad andare d’accordo con le società? Nel calcio sembra impossibile.

Puntiamo ad essere un riferimento, con standard molto elevati nelle procedure di allenamento, nella verifica delle prestazioni, nella didattica. Così ci siamo guadagnati la fiducia dei colleghi. Ormai è interesse (ed esigenza!) di tutti collaborare con la nazionale e il basket sta riuscendo a fare sistema.

Con che soldi?

Pochi. C’è la crisi, è vero, ma il fatto che manchino le risorse non significa che debbano mancare le idee.

Oltreoceano trovate la stessa disponibilità? 

Rapportarsi con l’NBA è più complesso, ma ci stiamo provando. Lì i giocatori sono aziende, e c’è il problema del calendario: troppe partite e non se ne vorrebbero aggiungere altre. Ecco perchè la paura delle nazionali…

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Dopo 82 giornate “Gallo & co.” vi arrivano stremati.

Negli Usa ci si allena poco e dunque spesso non si è pronti per giocare (ma lo si fa e basta). Una stagione americana logora molto di più di una europea. In ogni caso in nazionale l’urgenza è la stessa, per tutti: curare i sovraccarichi e rigenerare le motivazioni.

Agli ultimi Europei ci siete riusciti.

Si è sentito il sostegno del Paese. Grazie all’accordo con Sky e allo spazio che ci hanno riservato i giornali abbiamo avuto la giusta pressione: quella si traduce in volontà di essere produttivi. Il risultato finale è stato ottimo, il livello della competizione era veramente molto alto.

Ha vinto un oro con la Russia. Mica si emoziona per aver conquistato un preolimpico…

Ce lo siamo meritati. E con che fatica: due mesi lontani da casa, un traguardo importante, tante rinunce. E comunque ascoltare il proprio inno è un’altra cosa.

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Cosa?

La spinta emotiva fa la differenza. Con l’orgoglio di vestire la maglia azzurra tutto è più facile.

La testa: un preparatore dev’essere un po’ psicologo?

In questo mestiere è fondamentale costruirsi una professionalità a tutto tondo e saper collaborare. A me è sempre interessata la componente mentale. Ho investito molto su questo aspetto, come anche su quello riabilitativo e organizzativo.

E sulla vocazione internazionale.

Me l’ha trasmessa il “Doc”. Massarini è un mentore per me, sono stato con lui alla Technogym agli inizi della mia carriera. Mi ha aiutato ad allargare gli orizzonti e i contatti all’estero. Oggi è anche un carissimo amico!

A proposito di maestri, com’è “Cuzzo” in cattedra? La sua agenda è piena di corsi.

Sì la Federazione sta investendo seriamente sulla formazione e anche io sono impegnato parecchio. Ma stiamo poco in aula: la palestra viene prima. Offriamo un percorso poco nozionistico e molto vicino al campo.

Cioè?

Insistiamo sul “saper fare” e sul “saper far fare”. Sintetizziamo i contenuti teorici e le lezioni frontali, per dilatare la base esperienzale, sui vari piani: tecnico, tattico, motorio.

Con panchine migliori avremo presto nuovi campioni?

Speriamo. È un momento positivo: Bargnani, Gallinari, Gentile, Belinelli sono figure simboliche. Devono nascerne altre: lo sport vive di eroi…

Però?

Però il basket è un gioco di squadra. E l’eroe esiste solo in una squadra vincente.

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Vitalia è Eva

Eva, massiofisioterapista, è una “colonna” di Vitalia. E’ la prima storica collaboratrice del Doc. Ha visto crescere Vitalia e ogni giorno non vede l’ora di ricominciare. 

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Estate 2006. Vitalia era appena nata e…
Me ne parlò un amico che conosceva Massimo. Io volevo cambiare, dopo tanti anni nelle aziende cercavo nuovi stimoli. Mi innamorai del progetto, mi piaceva l’idea di unire l’esercizio terapia alla rieducazione funzionale, all’allenamento personalizzato. E poi riconobbi in lui i miei valori: trasparenza, correttezza, passione. Il gusto per le cose fatte bene, la cura del lavoro e dei materiali; il desiderio di migliorarsi sempre.

Che cosa facevi prima?
Arrivo dal fitness. Dopo il diploma alla Royal Academy of London ho collaborato con Rebook e Why Be Normal?, occupandomi principalmente di formazione. Ho studiato bioenergetica e quindi massofisioterapia.

Cosa c’è nel tuo curriculum sportivo?
Un po’ di danza, e poi salto in lungo e 100 m. Atletica e ginnastica sono i miei grandi amori…

Qualche nome?
Nadia Comaneci, che era una bambina quando guardavo le sue prime gare, e “Il Signore degli Anelli” (Yuri Chechi, ndr). Poi Carl Lewis e Serhij Bubka, due fenomeni assoluti.

Ti piacerebbe allenare un campionissimo?
Serve una vivacità che non mi sento più. Ma chiacchierarci insieme sì, e sentire raccontare la fatica. Lo sport a quei livelli è sempre sacrificio.

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In palestra lasci gli atleti a Claudia…
Sì, di solito seguo altri pazienti. Lei è perfetta nel ruolo: è brillante e preparata, davvero in gamba per quanto è giovane! Ha pazienza ed energia, è responsabile e seria: è un piacere collaborare con lei.

Non vi assomigliate per niente.
Infatti ci completiamo bene. Che poi è il segreto di Vitalia: ci sono competenze e profili diversi e si lavora tutti in un’unica direzione. C’è rispetto delle conoscenze degli altri e dialogo costante, così si affrontano i problemi a 360°. Con la porta sempre aperta, perchè Massimo dallo studio possa supportarci in palestra e viceversa.

La cosa più bella del tuo mestiere?
Tutto! Quando sono entrata qui ho finalmente capito che cosa volevo fare da bambina: questo. Ogni mattina mi sveglio contenta di ricominciare. Adoro stare con le persone, morirei in mezzo alle macchine. Poi mi piace la varietà: i massaggi, le ginnastiche, le sedute a casa dei pazienti che non possono venire da noi. E i corsi di yoga e pilates, quando finisco in via Della Rocca.

Prossime sfide?
Continuiamo ad aggiornarci, a leggere e confrontarci con i colleghi in giro per il mondo. Massimo ha tantissimi contatti internazionali, una straordinaria opportunità per Vitalia: dopo dieci anni continuiamo a crescere, sperimentare, metterci in gioco.

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(Non) dimagrire correndo

Capita di correre per dimagrire e non… dimagrire. Capita di fare scialpinismo per dimagrire e non… dimagrire. Capita. Ma perché? Lo abbiamo spiegato sull’ultimo numero di Ski-Alper: ecco l’articolo.

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Come siamo fatti

Il nostro corpo è costituito da ossa, visceri, muscoli e tessuto adiposo, ma soprattutto di acqua che rappresenta dal 50-60% del peso totale. Il tessuto adiposo è distribuito nel sottocute e tra i visceri. La sua funzione è quella di proteggere dagli urti, dal freddo, dare sostegno agli organi interni ma il grasso corporeo concorre a produrre sostanze (adipochine) responsabili di uno stato di infiammazione cronica che favorisce l’insorgenza di malattie cardiovascolari.

Il dimagrimento come perdita di massa grassa

Nell’atleta che pratica corsa in montagna o scialpinismo il grasso corporeo rappresenta una zavorra da dover portare in salita e quindi si cerca di tenerlo al minimo. La percentuale di massa grassa non dovrebbe comunque superare il 12-15% del peso corporeo. Le metodiche più diffuse per determinarla sono la plicometria, misurazione delle pliche cutanee con apposito strumento, e la bioimpedenza. Una tecnica che determina la percentuale di grasso corporeo valutando l’impedenza misurata da una micro corrente che attraversa il corpo e calcolando la composizione corporea in funzione del fatto che il tessuto muscolare, essendo più ricco di acqua, è un migliore conduttore.

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Il dimagrimento come effetto del bilancio negativo tra spesa e incasso

Innanzitutto è bene precisare che per perdere un kilo di massa grassa è necessario bruciare 7-9000 kcal, ovvero creare un deficit tra entrate ed uscite pari a tale quantitativo calorico. L’obiettivo può essere raggiunto con un aumento del volume di allenamento, riducendo l’assunzione di alimenti o con entrambe. Purtroppo molte persone vivono più di percezioni che di realtà e, sulla base di queste, capita che si tenda a sovrastimare la quantità di allenamento ed a sottostimare la quantità di cibo. Per ovviare al problema, il suggerimento è quello di rendere il più obiettivi possibili i dati relativi agli allenamenti e dell’alimentazione seguita. Per l’allenamento, basterà utilizzare con regolarità un cardio-GPS (come vi consigliamo qui) e scaricare i dati su PC o installare una delle molte app di monitoraggio sportivo; tra tutte, forse la migliore è Strava (ne parliamo qui). Più difficile tenere conto di ciò che si mangia. Capita infatti di “spizzicare” qualcosa qui e là senza ammetterlo neanche con noi stessi. Il consiglio è di tenere in tasca carta e penna o di scrivere nelle note di uno smart phone tutto quello che si mette in bocca. Con un po’ di pratica o con l’aiuto di un esperto (medico, nutrizionista) si dovrebbe riuscire a capire se mediamente il saldo calorie spese/calorie assunte è negativo o positivo. Attenzione comunque a non abbassare troppo l’apporto calorico giornaliero. Negli sportivi è infatti essenziale mantenere un regime alimentare adeguato agli allenamenti che vengono svolti altrimenti si rischia di incorrere in un drastico calo della performance.

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I fattori che influenzano il dimagrimento: tipi di alimenti, distribuzione dei pasti nella giornata

A volte però, anche se i “numeri di bilancio” sono negativi, l’ago della bilancia non scende. Come mai? In questi casi bisogna indagare su come e quando si mangia. In altre parole, le stesse calorie giornaliere distribuite in modo diverso durante la giornata e con percentuale di nutrienti corrette possono generare effetti diversi sul metabolismo.

Ecco gli errori più frequenti:
• tendenza ad assumere la maggior quantità di calorie con il pasto serale
• assumere pasti ricchi di carboidrati lontano dagli allenamenti
• assumere carboidrati ad alto indice glicemico (pane di farina 00, pasta, riso, patate, bevande dolcificate, alcol)
• assumere una limitata quantità di verdure
• tenere bassi, non più del 10% delle calorie giornaliere, i grassi saturi

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Vediamo quindi come correggere questi errori:
• assumere una piccola quantità di carboidrati a basso indice glicemico 1-2h prima dell’allenamento se si prevede che esso sia intenso
• ristabilire le scorte di glicogeno muscolare nella fase immediatamente successiva all’allenamento. L’ideale è reintrodurli entro 40’ perché in tal modo andranno a ricostituire le scorte di glicogeno muscolare evitando che essi vengano trasformati in grassi di deposito
• scegliere carboidrati a basso indice glicemico da alimenti ricchi di fibra, selezionare quindi farine integrali e cereali grezzi
• dare rotazione alla fonte di carboidrati. Alternare per esempio, farine integrali, orzo, kamut, riso integrale.

La perdita di peso dovrebbe essere di circa 0,5 kg/sett e dovrebbe essere costituita essenzialmente da massa grassa, mentre le oscillazioni di peso legate alle perdite di liquidi con il sudore dovrebbero essere rapidamente corrette con la reintroduzione di bevande leggermente ipotoniche per essere più velocemente assorbite. In conclusione, la quantificazione esatta della spesa calorica, la scelta degli alimenti e la loro distribuzione nell’arco della giornata in funzione degli allenamenti garantiranno il raggiungimento del risultato e del miglioramento prestativo.

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Vitalia è Paolo

“Solo feedback positivi”. Atlete e pazienti se lo sentono ripetere continuamente. Paolo è un martello: “Tutto quello che ci diciamo di negativo resta e diventa quello che siamo. I dubbi si trasformano in paure. Sbagliato, bisogna sempre pensare positivo”. Non è filosofia, ma tecnica vera e propria: come quella per sciogliere una contrattura.

Paolo Goria ha ventisei anni, è un fisioterapista e da qualche mese collabora con Vitalia (con il collega Fabio). Lo trovate in via Della Rocca oppure al Cus di via Panetti: Paolo è uomo di sport a 360°, giocatore, allenatore, massaggiatore. Siede sulla panchina di una delle coppie più forti del beach-volley azzurro (Giulia Aprile – Elisa Fragonas) e di un gruppo, quello cussino, che rappresenta un’eccellenza nel panorama italiano. Nel tempo libero è un “pro” a sua volta, con ottimi piazzamenti nei più prestigiosi tornei nazionali. In pratica è sempre in giro per le spiagge del Mediterraneo. “Viaggiare è la cosa più bella di questo sport. Ti tiene vivo”.

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Com’è la tua giornata tipo?

Al mattino presto sono in campo con le ragazze. Finisco e corro dai miei pazienti. Nel tardo pomeriggio e alla sera ho i corsi di base del Cus. Insegniamo la pallavolo a tutti, dai 10 ai 50 anni. Nei ritagli mi alleno, un paio di volte alla settimana con la palla, altrettante a secco, con i pesi. Nel week-end ci sono i tornei: cioè tanti chilometri e partite in luoghi meravigliosi.

Poi il lunedì si ricomincia con i massaggi. Da quanto sei fisioterapista?

Ho iniziato subito dopo la laurea, a 22 anni, come libero professionista. Ho studiato a Novara e ho una formazione neurologica, ma seguo da sempre le mie giocatrici e ho approfondito anche il filone sportivo.

Cos’hanno in comune un paziente neurologico e un atleta?

Entrambi patiscono per il loro problema fisico, soffrono, ci stanno proprio male. Attenzione: per gli sportivi spesso si tratta di dettagli, cose di per sé piccole. È importante ricordarselo: ci sono invalidità ben più pesanti. Chi ha avuto un ictus deve reimparare cose fondamentali come vestirsi da solo… la riabilitazione richiede un cammino sul piano fisico e psicologico.

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La paura di non farcela, però, è la stessa.

Infatti è fondamentale stabilire un buon contatto con il malato. Convincerlo a fidarsi e credere in se stesso, per ritrovare forza e sicurezza. E poi cerco sempre di esortare al movimento, anche se bisogna stringere i denti e sopportare qualche fastidio. In particolare con gli agonisti: il dolore fa parte della normalità. Ma solo chi ha una mentalità positiva ne esce bene.

Vale anche per i campioni?

Certo, almeno negli sport di situazione, come il calcio, il basket, la pallavolo. Il campione non è quello che ha dei picchi di prestazione, ma quello che rende anche se non è al top. L’ho capito allenando: spesso la partita ti chiede un gesto atletico che non sai o non puoi fare perché hai male. Pazienza. Il campione non si fa condizionare, trova soluzioni. Crea le forze per aggirare e superare gli ostacoli.

Altre caratteristiche?

Cura di sé e capacità di autogestirsi, sotto il piano alimentare, sportivo e umano. Sì i valori contano e non tutti i professionisti li hanno, i campioni sì. I miei preferiti? Roger Federer, nel tennis, Stefano Mancinelli nel basket. L’ho conosciuto alla PMS, con cui ho collaborato: un signore.

Sei un po’ uno psicologo?

Mi interessa molto l’aspetto mentale. Allenare le donne mi ha aiutato a capire quanto la testa influenzi i muscoli. Per approfondire sto studiando anche un po’ di programmazione neurolinguistica.

Il tuo motto?

“Tutto perfetto”. Lo dico alle mie giocatrici… proprio quando non è tutto perfetto, ma il risultato c’è. Il risultato è quello che conta.

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Ammortizzati o scalzi?

E’ uscito in questi giorni il numero di giugno e luglio di Ski Alper, cifra tonda: è il centesimo. Nella consueta rubrica di Vitalia parliamo di running: meglio ammortizzati” o al naturale, con scarpe così minimal da farci sentire a piedi nudi? Ci sono pro e contro per ogni runner: valutate con attenzione quali sono le vostre caratteristiche. 

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C’è chi lo chiama barefoot running, natural running, pose running o chi running, ma la sostanza non cambia: la moda di correre con scarpe minimal sembra affascinare il mondo del trail. Il sogno di migliorare la tecnica di appoggio, ridurre gli infortuni e andare più forte spinge molti appassionati a orientarsi verso scarpe leggerissime con sistemi di ammortizzazione e stabilizzazione ridotti all’osso che promettono di far sentire il piede libero e a contatto con il terreno. Articoli di tecnica di corsa postulano teorie secondo le quali la suola pochissimo ammortizzata spinge il runner a correre meglio con appoggi sull’avampiede e con una frequenza di passi più alta. La teoria (e il messaggio di marketing delle aziende) su cui si è sviluppata questa tendenza è: l’uomo è nato scalzo e quindi è stato fatto per correre in maniera naturale, le calzature super ammortizzate hanno alterato la tecnica di corsa favorendo l’appoggio di tallone e addormentando la sensibilità del piede, ergo, riduciamo al minimo la suola e torneremo a correre come natura vuole. Affascinante? Sì. Vero? Vediamo.

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Per evitare di farci prendere da soggettivismi su base empirica del tipo ‘un mio amico che aveva male al ginocchio…, mio fratello che aveva la tallonite….’ , siamo partiti dai più recenti lavori scientifici pubblicati su riviste indicizzate (clicca qui per la bibliografia), ne abbiamo selezionati tre, li abbiamo letti e interpretati e riassunti nei punti salienti per presentarvi la versione più scientifica possibile della diatriba in maniera comprensibile.

Alcune doverose premesse

Primo punto: negli ultimi 50.000 anni l’uomo ha sviluppato calzature sempre più confortevoli adattandosi a esse. Dagli anni ’70 a oggi il numero di runner è aumentato esponenzialmente e molti di essi sono pesanti, non adeguatamente preparati muscolarmente o con problematiche biomeccaniche. Forse se non ci fossero le calzature ammortizzate i traumi sarebbero ancora più numerosi. Secondo punto: non c’è correlazione tra traumi e tipo di calzature. Sia che usino scarpe ammortizzate o minimal, l’eziologia degli infortuni risiede in complesse cause biomeccaniche. Terzo punto: non si possono trarre conclusioni univoche. Non lo permette la dinamiche delle cause e nemmeno la natura degli studi effettuati, che per di più sono stati condotti con modalità differenti (ad esempio su treadmill o su superfici fisse).

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La questione infortuni

Perché si dice allora che il barefoot running riduca gli infortuni? Il postulato di base trova il suo fondamento nel fatto che correre con una protezione minima o assente modifichi la tecnica di corsa portando il soggetto ad atterrare con il mesopiede o sull’avampiede. Ciò comporterebbe una miglior assorbimento delle forze di impatto e un miglior utilizzo della fascia plantare che agirebbe da ammortizzatore. Tale tecnica di corsa prevede anche un aumento della frequenza dei passi che dovrebbe essere di circa 170- 180/min. Il conseguente accorciamento della falcata comporterebbe angoli di lavoro meno accentuati nell’articolazione del ginocchio mentre aumenterebbe l’angolo di flessione plantare del piede. Purtroppo l’origine degli infortuni è molto complessa e dal punto di vista biomeccanico non sempre è possibile individuare un singolo fattore che sia assolutamente predittivo. Inoltre anche se così fosse non sarebbe facile correggerlo. Quali sono i più comuni infortuni del podista e come vengono influenzati da calzature minimal? Per semplificare le problematiche, i lavori analizzati hanno classificato le più comuni patologie da sovraccarico in cui incorrono i podisti confrontandole con i fattori predisponenti, su come essi vengano influenzati dal barefoot running e quindi sui potenziali risultati attesi.

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La tabella qui sopra, che abbiamo pubblicato su Skialper, dimostra ulteriormente che alcune patologie possono essere aggravate mentre altre possono beneficiare dall’uso di scarpe minimal. Studiandola è evidente, e lo ripetiamo di nuovo, che le conclusioni sull’effetto del barefooot running nelle varie patologie non sono univoche. Nelle fratture da stress della tibia e dei metatarsi, un aumento della pressione nell’impatto con il suolo causato dal barefoot running può aumentare il rischio di incorrere in queste patologie. Nella sindrome femoro-rotulea, si ritiene che un miglior allineamento del ginocchio e minor forze di impatto grazie all’appoggio sul meso e avampiede tipici del barefoot possano essere di beneficio nel prevenire e nel favorire la regressione delle problematiche. Per quanto riguarda la caviglia e le patologie del tendine d’Achille, a fronte delle teorie a favore del minimal, fondate sulle considerazioni del passo più corto e con minori forze di impatto, si associa una maggiore flessione plantare e una più alta sollecitazione dell’Achille che verrebbe quindi esposto a un maggior rischio di patologie da sovraccarico. Nella fascite plantare si può invece ipotizzare che il rinforzo dei muscoli che sostengono l’arco plantare causato dal correre con poca ammortizzazione possa essere di beneficio, ma anche in questo caso la conclusione è che è necessario approfondire gli studi e le ricerche.

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Ad ognuno la sua scarpa

Si può modificare la tecnica di corsa? Conviene farlo? I pareri sono anche qui discordi: quello che senz’altro si deve consigliare è la gradualità nel passaggio da scarpe ammortizzate a calzature minimal. Soprattutto chi corre con appoggio sul retropiede deve fare particolare attenzione nelle prime fasi in quanto la tecnica di corsa richiede tempo per modificarsi e il rischio è quello di aumentare piuttosto che diminuire gli infortuni nella prima fase. Le nuove calzature andranno quindi utilizzate per brevi tratti di corsa, qualche centinaio di metri, alternati a tratti di camminata. Da uno degli studi pubblicati si evince comunque che non è detto che chi corre con appoggio sul tallone riesca a modificare stabilmente la sua tecnica di corsa e quindi potrebbe essere ancora più esposto al rischio di infortunio con le scarpe minimal. Alla luce di quanto esposto finora, si può affermare che se si è trail runner non più giovanissimi e con una struttura fisica non leggerissima, l’opzione barefoot diventa ancora più rischiosa: si pensi a quanto vengano sollecitate le strutture muscolo tendinee del polpaccio e le articolazioni metatarsali che, per effetto dell’età, tendono naturalmente a essere meno elastiche. Infine, non dimentichiamo che, soprattutto nei trail lunghi, la fatica tende a causare un rallentamento dei riflessi e delle reazioni muscolari ed in queste situazioni l’uso di calzature scarsamente protettive può aumentare il rischio di infortuni.

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Mezzalama 2015, final countdown

Tra appena una settimana la regina delle classiche, il Mezzalama. Noi di Vitalia non staremo a guardare: due le squadre che si sono allenate con noi in questi mesi e saranno in azione in Val d’Aosta dal 25 aprile. Ve le presentiamo. 

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 La squadra “senior” (Giorgio, Federico e Paola)

Ci siamo. Sabato 25 Aprile, tempo permettendo, quasi 1000 scialpinisti scatteranno da Gressoney lanciati per una cavalcata che sul filo dei 4000 li porterà a Cervinia: il Trofeo Mezzalama. Una gara che per gli scialpinisti è importante quanto la New York Marathon per i podisti o la Parigi-Roubaix per i ciclisti. Al momento del via, tutta la fatica fatta durante l’inverno, tutte le migliaia di metri di dislivello saliti, tutto il freddo ed il vento sopportati saranno alle spalle. Davanti ci sarà la prima interminabile salita che li porterà al Lyskamm, e poi al Castore, al Breithorn e poi giù fino all’arrivo dopo 42 km e 3500m. di dislivello positivo.

Tra questi 1000, divisi in più di 300 squadre di 3 elementi l’una, ci sono anche i nostri atleti, quelli che con Giorgio Villosio (lo presentiamo qui) abbiamo seguito ed allenato durante questi mesi. La squadra A con Paola, Federico e Giorgio, e la squadra B con Andrea, Pietro e Luca. 

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Paola ha recuperato alla grande il brutto infortunio al gomito

Paola, avvocato eporediese alla prima esperienza, non si è risparmiata negli allenamenti e dopo la sfortuna della frattura del gomito a fine dicembre ha ampiamente recuperato il tempo perso ed è pronta alla sfida. Con lei sia Giorgio che io dobbiamo gestire la sua voglia di allenarsi per evitare che esageri nelle sedute sugli sci o in bici. Federico, giovane e con grande motore, è entrato a rimpiazzare Davide che per motivi lavorativi aveva rinunciato a febbraio. Con lui Giorgio ha impostato diverse uscite per affinare al meglio la tecnica: gli manca un po’ di fondo, ma siamo fiduciosi nelle sue doti.

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I giovani della squadra B in allenamento alla Testa d’Arp

La squadra B, nata quasi per caso a inizio marzo, ha trovato sin dall’inizio grande affiatamento. Il “capitano”, Andrea Tropiano, ha al suo attivo già cinque partecipazioni alla gara ed è quindi un elemento di grande esperienza. Anche a Pietro, classe ’88, il piede montagnard non manca, vista la sua poliedrica esperienza su sci, ghiaccio e roccia; del resto cosa aspettarsi da uno nato e cresciuto a Courmayeur? Bocia del gruppo Luca Rodano: classe ’91, un passato di triathleta ed un presente da studente di medicina, ha fatto sci agonistico e anche a lui la velocità sugli sci non crea problemi, anzi…

Testati in laboratorio e sul campo, gli atleti hanno fatto riscontrare valori analoghi di capacità aerobica e questo è positivo per l’omogeneità delle squadre. Ovviamente Giorgio ha una marcia in più, ma lui è la Guida! Mercoledì 15 tutti erano sul Rosa per l’ultima uscita di gruppo, a provare percorso e materiali. Al rientro Giorgio era soddisfatto ed ha dato le ultime indicazioni a tutti. Nel frattempo è arrivata la generosa fornitura di integratori Enervit e di maglie termiche Bandavej. 

Ora non resta che sperare in un tempo clemente.

A presto!

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Sport e psicologia: open day

La nostra psicologa Anna Sole Marta vi aspetta lunedì 20 aprile per un colloquio gratuito. Una buona occasione per conoscerla (si presenta qui) e capire quanto il sostegno psicologico possa aiutare nello sport ma non solo. Appuntamento dalle 12 in poi nell’ambulatorio di Vitalia in via della Rocca 22. E’ necessario prenotarsi al numero 340.604.0179 o scrivendo a annasole.marta@gmail.com.

Qui il suo articolo sull’importanza della “testa” nel ciclismo.

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