Eva, massiofisioterapista, è una “colonna” di Vitalia. E’ la prima storica collaboratrice del Doc. Ha visto crescere Vitalia e ogni giorno non vede l’ora di ricominciare. 

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Estate 2006. Vitalia era appena nata e…
Me ne parlò un amico che conosceva Massimo. Io volevo cambiare, dopo tanti anni nelle aziende cercavo nuovi stimoli. Mi innamorai del progetto, mi piaceva l’idea di unire l’esercizio terapia alla rieducazione funzionale, all’allenamento personalizzato. E poi riconobbi in lui i miei valori: trasparenza, correttezza, passione. Il gusto per le cose fatte bene, la cura del lavoro e dei materiali; il desiderio di migliorarsi sempre.

Che cosa facevi prima?
Arrivo dal fitness. Dopo il diploma alla Royal Academy of London ho collaborato con Rebook e Why Be Normal?, occupandomi principalmente di formazione. Ho studiato bioenergetica e quindi massofisioterapia.

Cosa c’è nel tuo curriculum sportivo?
Un po’ di danza, e poi salto in lungo e 100 m. Atletica e ginnastica sono i miei grandi amori…

Qualche nome?
Nadia Comaneci, che era una bambina quando guardavo le sue prime gare, e “Il Signore degli Anelli” (Yuri Chechi, ndr). Poi Carl Lewis e Serhij Bubka, due fenomeni assoluti.

Ti piacerebbe allenare un campionissimo?
Serve una vivacità che non mi sento più. Ma chiacchierarci insieme sì, e sentire raccontare la fatica. Lo sport a quei livelli è sempre sacrificio.

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In palestra lasci gli atleti a Claudia…
Sì, di solito seguo altri pazienti. Lei è perfetta nel ruolo: è brillante e preparata, davvero in gamba per quanto è giovane! Ha pazienza ed energia, è responsabile e seria: è un piacere collaborare con lei.

Non vi assomigliate per niente.
Infatti ci completiamo bene. Che poi è il segreto di Vitalia: ci sono competenze e profili diversi e si lavora tutti in un’unica direzione. C’è rispetto delle conoscenze degli altri e dialogo costante, così si affrontano i problemi a 360°. Con la porta sempre aperta, perchè Massimo dallo studio possa supportarci in palestra e viceversa.

La cosa più bella del tuo mestiere?
Tutto! Quando sono entrata qui ho finalmente capito che cosa volevo fare da bambina: questo. Ogni mattina mi sveglio contenta di ricominciare. Adoro stare con le persone, morirei in mezzo alle macchine. Poi mi piace la varietà: i massaggi, le ginnastiche, le sedute a casa dei pazienti che non possono venire da noi. E i corsi di yoga e pilates, quando finisco in via Della Rocca.

Prossime sfide?
Continuiamo ad aggiornarci, a leggere e confrontarci con i colleghi in giro per il mondo. Massimo ha tantissimi contatti internazionali, una straordinaria opportunità per Vitalia: dopo dieci anni continuiamo a crescere, sperimentare, metterci in gioco.

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Si chiude oggi la riunione dei leader mondiali a Davos. Si è parlato anche di salute e lavoro: è ormai indispensabile trovare nuove formule per la prevenzione e il contenimento dei costi sanitari. Il commento del dott.

Annual Meeting 2011: Logo in the sunny weather of Davos

In questi giorni è in corso a Davos il World Economic Forum, un evento mondiale che si ripete periodicamente e che vede le migliori menti del pianeta riunite a discutere le politiche che possano avere un impatto globale. Uno dei principali temi in agenda quest’anno è, guarda caso, la salute di chi lavora.

La situazione è chiara: le economie degli stati non possono più sostenere il costo delle cure dei cittadini. La ricerca di nuovi farmaci e di nuove terapie curative deve essere affiancata a progetti per la prevenzione che siano efficaci ed accessibili ai più. Le soluzioni sembrano semplici ad una prima analisi: più movimento e alimentazione migliore. Eppure queste strategie lapalissiane sono molto difficili da implementare e richiedono una precisa visione che si realizzi attraverso una altrettanto precisa esecuzione. Invece, i lavoratori, soprattutto nelle grandi aree urbane, sono costretti a ritmi in cui è veramente problematico ritagliarsi i tempi per prendersi cura di sé.

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D’inverno una ciaspolata è un ottimo esercizio

Pensiamo al caso di una madre di famiglia che abiti nella periferia di una grande città e che debba lavorare le canoniche otto ore. La sua sveglia suonerà alle sei della mattina e, dopo aver preparato la colazione per la famiglia, ci sarà il trasferimento sul luogo di lavoro con auto e treno o con altri mezzi di trasporto. La pausa caffè sarà consumata davanti ad una macchinetta che eroga bevande calde o soft drink e “merendine” impreziosite da zuccheri e conservanti di vario tipo. Seguiranno altre ore alla scrivania, che spesso non rispetta criteri di ergonomia, che si interromperanno per il pranzo consumato alla mensa aziendale o al bar d’angolo. Il pomeriggio ricalcherà il copione della mattinata fino all’uscita intorno alle 17.30-18. Un’altra ora di trasporto pubblico e si è a casa, pronti per preparare la cena e… stramazzare a letto.

Eppure tutte le ricerche mediche evidenziano i rischi legati a questo stile di vita. In primis, il sovrappeso che a sua volta conduce alle malattie metaboliche come il diabete di tipo II, a molti tumori ed alle malattie cardiovascolari. Il problema si combatte con due armi, come al solito: più movimento e alimentazione migliore. E allora come possiamo incidere nella vita della mamma appena descritta?

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Una corsetta nel week-end è un buon inizio. Ma bisogna prendere abitudini sane in settimana

Pensiamo che piccole modifiche, concrete, possano fare una grande differenza. Immaginiamo che la signora possa camminare un kilometro prima di salire su un mezzo di trasporto oppure che possa utilizzare una bicicletta ed una pista ciclabile, che, invece della borsetta, usi uno zainetto in cui mettere due snack salutari ed una scatola con del cibo sano per il pranzo. Ciò le consentirebbe di risparmiare venti minuti di pausa mensa che potrebbero essere dedicati ad una camminata di 2 km. All’uscita, un altro km a piedi ed ecco che nella giornata lavorativa si riuscirebbe ad accumulare quella fatidica quantità di movimento necessaria a fare della vera prevenzione.

Il primo passo è continuare ad informare, perché l’informazione è educazione.
Il secondo potrebbe essere quello di incentivare. Offrire ad esempio dei bonus (buoni acquisto nei supermercati) a chi dimostra di prendersi cura di se stesso: tutti vantaggi che tornerebbero nelle “tasche” delle aziende e dello stato in termini di riduzione dell’assenteismo per malattia e spesa sanitaria.
La strada c’è, basta aver la voglia di iniziare ad incamminarsi.

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Nome: Fabio
Team Vitalia dal: 2011
Formazione: Laurea in Fisioterapia, sta conseguendo laurea magistrale in Scienze della Riabilitazione

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Di che cosa ti occupi?

Ho fatto corsi di RPG, Kinesio Taping, tecniche osteopatiche ed altri ancora e mi interesso di problematiche posturali ma soprattutto di pazienti ortopedici. Seguo giovani sportivi che hanno appena subito un intervento chirurgico. Curo la fase acuta post operazione, per permettere loro di tornare alla vita normale.

I tuoi pazienti hanno il morale a terra…

Già. Per questo durante il trattamento riabilitativo cerco di instaurare un rapporto molto umano: andare al di là della riabilitazione aiuta moltissimo il paziente sotto il profilo psicologico.

Anche tu sei uno sportivo?

Sì. Gioco a calcetto con gli amici e vado a correre.

Come lavora il Team Vitalia?

C’è una collaborazione molto stretta tra di noi. In modo particolare io mi confronto tantissimo con il Dott. Massarini perché seguo la parte acuta post intervento. In questa fase – ma non solo – il rapporto con le figure mediche (ad esempio l’ortopedico che ha operato un nostro paziente) è costante e giornaliero. Lo scambio di informazioni tra me, Claudia o Eva, il dott. Massarini e il chirurgo è molto importante per il paziente: non viene mai abbandonato e cerchiamo di gestirlo nella sua globalità. Quando ho finito la mia parte tocca a Claudia ed Eva iniziare l’attività di recupero in palestra.

Perché hai scelto questa “squadra”?

Mi sono piaciute le persone che ne facevano (e ne fanno) parte. Sono contentissimo di lavorare qui: mi trovo bene.

 

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Nome: Claudia
Team Vitalia dal: 2007
Formazione: Laurea in Scienze Motorie, Master in Traumatologia e Riabilitazione Sportiva

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Dal mare della Sardegna alla nebbia del Piemonte. Che cosa ti ha portata qui?

Dopo la laurea sono venuta a Torino per il Master. Ero preoccupata: il mio percorso sembrava chiudermi tutte le strade. Rimanevano solo la palestra e la scuola che sono ambiti un po’ limitati rispetto all’iter degli studi. Non mi vedevo in un ambiente chiuso, al lavoro su sport individuali (ho giocato a lungo a pallavolo). Poi il mio interesse è variato più verso la riabilitazione sportiva.

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E hai conosciuto Massimo.

Cercava laureati in Scienze motorie e mi ha convinta subito: credeva nella mia formazione. Prima di cominciare con Vitalia sono tornata nella mia Sardegna per un’esperienza al Forte Village. Dopo l’estate ho iniziato qui in via della Rocca.

Sotto le ali di Eva…

Mi ha aiutata tanto. Mi ha insegnato soprattutto a rapportarmi con le persone: prima di definire un programma bisogna ascoltarle, prima dell’esercizio capirle. Solo così si ottengono risultati. La cosa più difficile è proprio creare empatia con il paziente: lui deve avere fiducia in me perché sto lavorando con la sua salute!

Come fai con gli sportivi infortunati?

 Il primo step è rincuorarlo: nella vita di uno sportivo l’infortunio va accettato, è inevitabile! Insomma affronto la situazione innanzitutto dal punto di vista psicologico: spesso la persona è demoralizzata e non vede l’ora di recuperare. Ha interrotto i suoi sogni, non solo la sua attività: per questo si lamenta (in più c’è il dolore fisico) e si innervosisce. Serve tanta pazienza, ma è il bello del mio lavoro: ho avuto un sacco di soddisfazioni. Quando un paziente mi dice “sono tornato a sciare” è una vittoria!

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Nella tua carriera di pallavolista hai avuto qualche stop?

Uno solo per fortuna. Mi sono dovuta fermare per una brutta distorsione alla caviglia con rottura del legamento. Mi ha segnata molto perché è successo in un anno decisivo: stavo giocando bene e in una categoria importante.

Ti alleni ancora?

Ho smesso per ragioni logistiche. Poi mi sono dedicata al beach volley indoor, adesso al tennis.

Com’è cambiata Vitalia in questi anni?

Quando sono arrivata era appena nata e Massimo stesso voleva sviluppare la sua idea. La mia passione per la traumatologia e riabilitazione ha fatto sì che diventassimo questo: un centro dove si guarda l’individuo a 360 gradi. Oggi non ci occupiamo solo di anziani e ginnastica posturale, ma anche di sportivi, diabetici, pazienti con disturbi alimentari: proviamo a far vivere meglio qualsiasi persona.

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Nello sport più arrivi in alto più e più è difficile gestire le situazioni. I grandi atleti chiedono la massima professionalità e discrezione, collaborano con poche persone e di fiducia. Si deve saper dire la parola giusta e non dire quella sbagliata; esserci quando serve e diventare invisibili quando è ora. È l’errore di molti colleghi, pur bravi: durano poco perchè non sanno dominare l’aspetto emotivo e parlano a sproposito”.

Devi saper riconoscere le occasioni: “devi”, non puoi sbagliare. Il tempo, il luogo, quel tempo, quel luogo…“in certi ambienti” si annusano. “Bisogna avere la capacità di starci, in certi ambienti”.

Fabrizio Borra

Fabrizio Borra è uno dei fisioterapisti più stimati in Italia, da venticinque anni: “arrivare in alto è dura, ma io sono stato fortunato e ho fatto in fretta. Il problema è rimanerci: basta un errorino per precipitare. Ci si deve aggiornare continuamente”. Fabrizio è un osservatore, uno che guarda da tutta la vita: suo fratello maggiore già fisioterapista, poi gli americani innovatori, i cestisti di Forlì, i ciclisti in salita, le Ferrari in giro per il mondo. Quello che impara sperimenta, su muscoli d’oro: quelli del cecchino Bob McAdoo, di Pantani, Cipollini, Basso, Fernando Alonso, Fiorello, Jovanotti. Dal 1988 studia i campionissimi:

Gli atleti devono esasperare il loro corpo, farlo rendere al 110%. Devono andare al limite di loro stessi: è un obbligo. È lì che li accompagno.

Fabrizio, “Fisiology” è un centro frequentato da persone normali e olimpionici. Come conciliate esperienze così lontane?

Abbiamo un presupposto tecnico preciso: il metodo per trattare il mio vicino di casa e l’atleta professionista è lo stesso. Cambia il dosaggio. La persona normale parte da un basso grado di disabilità, dovuto ad una patologia, e deve recuperare la capacità di svolgere le sue attività quotidiane; l’atleta vuole guarire e migliorare la sua performance. Il razionale è uno solo: sono diversi gli obiettivi. Per portare in alto l’atleta devo trovare soluzioni innovative: se l’esperimento funziona ho una nuova tecnica con cui aiutare gli altri pazienti. In questo modo sono sempre stimolato a fare ricerca e offro trattamenti d’avanguardia.

Concretamente, di che cosa ti occupi?

Sono un fisioterapista, non un preparatore, non un medico. Nel mio centro ci sono questi profili, ma ognuno fa la sua parte: io curo la salute a livello fisioterapico. A seconda delle circostanze devo declinare il mio ruolo, ma la premessa è comune: un atleta è come una macchina da corsa (una persona comune è un’auto stradale) e gli aspetti strutturale, scheletrico, muscolare, tendineo costituiscono la meccanica della macchina; la prestazione è il motore; la testa è la centralina, su cui posso agire in due modi: neuromuscolare e psicomotivo. Posso seguire la macchina a 360°, com’era con Pantani ed ora è per Alonso; oppure valutare solo la carrozzeria e il bilanciamento: per i ciclisti, ad esempio, mi limito alla biomeccanica posturofunzionale. Poi tocca al preparatore atletico agire sulla performance.

La tua giornata tipo?

La mia base è “Fisiology” a Forlì e viaggio per alcuni pazienti. Pantani e Alonso mi chiedevano un impegno di 250 giorni l’anno: un ritmo troppo intenso, per me, oggi! Proprio per questo ci dividiamo i compiti con suo cognato Edoardo Bendinelli.

Fabrizio con Alonso

Segui Alonso da dodici anni. Com’è cresciuto?

Aveva diciott’anni quando ci siamo conosciuti: era un ragazzino. Ha capito che il rapporto poteva svolgersi non solo sul piano fisioterapico ma anche su quello umano. Abbiamo creato un’équipe di specialisti con cui interagire a seconda delle necessità: gli atleti come lui preferiscono relazionarsi con un unico riferimento. Il legame si è stretto e alla stima si è aggiunta l’amicizia.

Come si allena un pilota di Formula 1?

Ha due esigenze: innanzitutto deve avere tutte le capacità di base portate verso l’alto, come la forza e la capacità cardiovascolare. È facile con Fernando: gli piacciono tutti gli sport e non sta mai fermo. Ma un atleta come lui ha sempre bisogno dello stimolo della competizione: con gli altri o con se stesso, dev’esserci la componente agonistica. Gioca a calcio, nuota, corre e va tanto in bici (15mila km all’anno): gli è molto utile il ciclismo perché impara a gestirsi (deve tornare a casa: anche dopo 130 km!) e le strutture sono in scarico. La seconda caratteristica da affinare è la capacità di controllo neuromuscolare per combattere la forza centrifuga. Le monoposto sono pezzi di carbonio lanciati sull’asfalto: le sollecitazioni sulla colonna sono spaventose e bisogna investire molte energie sulla funzionalità globale e sull’addestramento delle abilità.

E le sollecitazioni al collo sono ancora un problema?

Le macchine sono cambiate rispetto a cinque anni fa, quando faticavano soprattutto le braccia e il collo. Oggi è cambiata l’aderenza e grazie all’idroguida il volante si governa con un dito. I nuovi mezzi richiedono una straordinaria lucidità mentale: bisogna memorizzare gli schemi e abbassare i tempi di reazione. Non c’è tempo per pensare in Formula 1, quando lo fai è già tardi. Le manovre vanno sottocorticalizzate, cioè l’impulso deve essere immagazzinato nella parte più profonda del cervello perchè diventi un automatismo: l’unico sistema è ripetere i gesti sui simulatori.

Anche il ciclismo ti ha dato soddisfazioni.

Sono stati da me molti dei migliori degli ultimi anni: Cipollini, Basso, Bettini, Cancellara, Bennati… Ma l’esperienza più forte della mia vita ha un nome ed un cognome: Marco Pantani.

Marco Pantani

18 ottobre 1995, Milano-Torino: frattura di tibia e perone frammentaria esposta.

Fu la mia più grande scuola. Lo rieducai grazie a quanto appreso in America e ad un delicato lavoro multidisciplinare: coordinai una squadra di esperti per rimetterlo in sella. Tornammo in alto, all’apice del successo: vinse il Giro e il Tour, ci sembrò di sfiorare la punta del cielo. Poi il crollo: aveva toccato il fondo. Non ci fu modo di aiutarlo, la crisi lo portò all’autodistruzione. In dieci anni accompagnare il tuo atleta dal cielo al cimitero: sono cose che ti porterai dentro.  È stata una lezione durissima.

Le tue mani hanno massaggiato i più forti. Che cosa c’è nel corpo di un campione?

Un fisico allenato dall’infanzia e poi testa e talento. Un buon atleta ha un buon talento e una buona testa. Un campione ha un grande talento e una grandissima testa.

Che cosa pensi dei mental coach?

Secondo me un vero campione non ne ha bisogno: non può essere dipendente – a livello mentale – di un altro.  È giusto che i giovani siano aiutati a crescere in fretta anche nella psicologia e nell’emotività, ma ad un certo punto bisogna saper fare da sé: il campione ce l’ha dentro, il mental coach. Non ha bisogno di sostituirlo ogni due anni… In alcuni momenti specifici può farsi aiutare, ma dev’essere padrone di se stesso: sarà la sua determinazione a fare la differenza.

I tuoi “numeri uno” non sono solo atleti, ma anche uomini dello spettacolo. Perché vengono da te?

Ho cominciato con Jovanotti nel ’97, mi chiese qualche dritta per preparare la sua tournée. I suoi concerti sono molto fisici, si muove come un matto, le date sono vicine e non ha un attimo di tregua: doveva imparare a recuperare in fretta. La collaborazione continua ancora oggi. Fu un amico comune a presentarmi Fiorello, che non riusciva a superare un dolore alla spalla. Anche con lui la relazione si è consolidata: su Twitter mi aveva definito come il suo “ansiolitico”.

Jovanotti scatenato sul palco

Come sei arrivato fin qui?

Ho iniziato per colpa del mio ginocchio: ero stato operato ma non riuscivo a riprendermi. Mio fratello aveva una palestra a Brescia (la mia città) e andavo da lui per la rieducazione: volevo capire perché il ginocchio non funzionasse. Dovevo ancora finire le superiori. Mi appassionai e decisi di iscrivermi al corso di massiofisioterapia. Mio fratello mi permise di fare pratica mentre studiavo e questo mi diede una marcia in più.

Mister Maifredi ti volle subito al suo fianco.

Dopo poco. La mia fortuna fu che a quel tempo il Brescia aveva due squadre (calcio e basket) nelle massime serie. Ebbi da subito contatti con i rispettivi massaggiatori e imparai tantissimo. Poi Maifredi mi prese “in custodia” per alcune fortunate avventure: tra queste le stagioni con Ospitaletto (C2) e Bologna (B). Anche un amico che correva in macchina, Alex Caffi, mi volle con sé quando approdò in Formula 1. Intanto continuavo con la pratica da mio fratello ed era nato mio figlio: mia moglie mi voleva a casa, viaggiavo tropp

Il segreto era cambiare casa!

Mi chiamarono a Forlì, nel 1990. Era arrivato dall’America il giocatore più forte del momento, veniva a chiudere la carriera da noi e voleva un terapista: era Bob McAdoo, stella dei Lakers, che avrebbe dato una svolta alla mia formazione. Mi diceva: “Tu sei un buon trainer – l’equivalente della mia figura in NBA- ma devi andare in America!”.

Sei salito su un aereo?

Non me lo potevo permettere! A fine anno mi regalò lui i biglietti per Los Angeles, e una spinta per un tirocinio con i Lakers. Con il suo nome si aprirono le porte, ma c’era spazio solo per un apprendista-tuttofare: ci andai d’estate, per la Summer League. Al mattino stavo in clinica, il resto della giornata con la squadra. Portavo le borracce, gli asciugamani, pulivo i parquet. Tornai per diverse estati, nel frattempo era nata un’amicizia straordinaria con Gary Vitti, il trainer dei Lakers (ormai, dopo vent’anni, è diventato il mio “fratello” americano) ed era lui ad ospitarmi.

Gary Vitti con Bryant

Gli americani erano più bravi?

Nella traumatologia erano e sono tra i migliori al mondo. Allora poi i loro libri non si trovavano in Italia e venivano tradotti dopo tre o quattro anni, quando loro avevano già inventato nuove tecniche. L’unico modo per essere aggiornati, prima di Internet, era andarci.

In quello spogliatoio c’era gente tipo Magic Johnson…

Era il posto più bello del mondo per uno del mio mestiere. Pur di rimanerci ero disposto a tutto. Non mi sono mai pesati i lavori umili, non mi sono mai vergognato. Oggi i neolaureati sono tutti dottori, nessuno ha voglia di sporcarsi le mani: ma la gavetta è un passaggio fondamentale!

A che punto è la fisioterapia in Italia?

All’estero ci sono una cultura e un know how che noi ci sogniamo: qui siamo fermi ai protocolli. Ai convegni io spiego il razionale, non l’esercizio: invece i rieducatori italiani vogliono gli esercizi. Ecco il nostro limite: l’esercizio si misura sul paziente, non esistono protocolli. Nella mia ottica il paziente ha un percorso soggettivo: rispetto i tempi che mi dà il chirurgo e divido il percorso in fasi, come delle tappe. Passo alla successiva solo quando si è raggiunto il traguardo della precedente. Controllo le risposte del paziente e formulo gli esercizi ad hoc: devo capire ogni giorno di che cosa ha bisogno. Oggi pochi hanno voglia di pensare…

Anche tu fai parte del Team Technogym Ability Training, insieme al dott. Massarini. Dove volete arrivare?

Siamo un gruppo di professionisti che si sono tolti le loro soddisfazioni e ora vogliono provare a cambiare le cose, con una rivoluzione culturale: noi crediamo il movimento sia costituito dalle abilità di base, quindi ogni allenamento deve essere strutturato per migliorarle. Dopo un infortunio è necessario recuperarle tutte. Anche Massarini ne è convinto – del resto collaboriamo da una vita – e il metodo Vitalia è lo stesso che uso io. La mia rieducazione è più esercizio che lettino (per il 90% dei colleghi essa è esclusivamente lettino): l’esercizio è la soluzione alla maggior parte dei problemi!

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[message type=”info”] Speciale World Master Games – I campioni sono fatti così: si allenano tutti i giorni e trovano il tempo per famiglia, amici e lavoro. Costruiscono i risultati con tre “p”: passione, pazienza, perseveranza.

Le campionesse invece sono fatte così: mandano avanti la famiglia mentre si allenano tutti i giorni (anche due volte) e incastrano commissioni, amici e lavoro. Costruiscono i risultati con tre “m”: sono “mamme” e il resto è riscaldamento.

Cristina è una campionessa così. Quattro ori e un argento ai Wmg, un titolo italiano e molte altre medaglie in appena due stagioni master; la carriera nel canottaggio abbandonata a 25 anni e ripresa a 40: un sogno nel cassetto riscoperto e avverato accanto alla figlia… [/message]

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Hai portato tua figlia a remare e lei ha riportato te in barca. Com’è andata?

Un giorno l’ho accompagnata ad una gara. L’ho seguita, c’era un tramonto stupendo. Ho sentito un richiamo fortissimo, quel paesaggio mi ha aperto il cuore: dovevo ricominciare anch’io.

Hai un passato da ex?

Sì. Ho gareggiato dai 15 ai 25 anni con buoni piazzamenti a livello internazionale ed ottimi a livello italiano. Avevo iniziato per rinforzare la schiena; ho smesso quando sono mancate le soddisfazioni. Il ritmo era troppo alto e non ce la facevo più: volevo finire di studiare.

Diletta segue le tue orme?

Diletta ha cominciato senza ambizioni, poi ad un certo punto è scattata la molla: un po’ l’esempio delle sue compagne più forti, un po’ il gruppo, un po’ i primi piazzamenti… adesso non si perde un allenamento né una gara. Ha la stoffa, ma la strada è ancora lunghissima (lei ha solo 14 anni) e bisogna saper dosare le energie: il suo bel “sacrofuoco” che oggi brucia così intensamente, non si dovrà spegnere troppo presto!

Frequentate lo stesso circolo?

Siamo entrambe al Cus Torino di piazza Zara: avevo mandato lì mia figlia perché c’era (c’è!) il mio allenatore di vent’anni fa, Mauro Tontodonati, che è bravissimo. Si è subito trovata bene e poi mi sono inserita io, nel 2011.

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Da madre e da sportiva, quanto è importante la figura dell’allenatore?

Fondamentale. Lo capisco soprattutto ora: quando i figli sono adolescenti è normale che prendano le distanze dai genitori e cerchino anche altri esempi. A quell’età spesso si ha più confidenza e più fiducia in un altro adulto piuttosto che in mamma e papà: quello che conta è che i principi passino! Sono contenta che mia figlia cresca circondata da belle persone in un ambiente sano: alcool, droga, eccessi in discoteca, sono vizi non compatibili con un’attività quasi professionistica.

Lo sport è scuola di vita?

Senza dubbio. L’agonismo ha un valore: s’impara a soffrire e a stringere i denti per un obiettivo. Sono virtù che hanno in pochi. Oggi domina la cultura del “tutto facile” e del “tutto subito”. Lo sport educa al contrario: tempo e dedizione, fatica e sacrificio, testa e sguardo al futuro. Nel canottaggio poi, se semini adesso magari raccoglierai tra dieci anni.

Tu hai raccolto in abbondanza!

L’attività giovanile mi ha lasciato un’ottima base: quando ho ripreso è stata dura ma sono migliorata tanto e in fretta. E poi le nuove regole mi hanno aiutata: una volta con le categorie uniche le più esili correvano contro le più massicce, sulle stesse barche. Quelle come me erano chiaramente penalizzate, mentre le atlete più vigorose come le nord europee erano sempre davanti. Oggi mi confronto con i pesi leggeri (max 59 kg) e devo stare attenta alla dieta!

E hai una barca tutta tua.

Sì, adattata in ogni dettaglio su di me. E poi, non più in legno, ma in fibra: con la stessa fatica sono molto più veloce!

Ai WMG sei stata un fulmine. Seconda nel quattro di coppia del 7 agosto, poi prima per quattro volte: nel singolo del 8, nel doppio del 9, ieri nelle gare miste sia nel doppio che nel quattro di coppia. Come ti senti?

Sono davvero contenta. Il mio obiettivo era eguagliare i tempi degli allenamenti di questi mesi. Di solito patisco la gara – per esempio mi blocco e sbaglio la respirazione- e rendo meno rispetto al mio potenziale.

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È più forte la Cristina di oggi o quella di vent’anni fa?

Difficile stabilirlo. Certamente la mia attività di master è più gratificante. E poi mi alleno meglio: allora ero una delle poche donne, spesso ero da sola, non c’era attenzione né cura del settore femminile. Era sottovaluto e invece oggi le ragazze sono numerosissime. Al Cus abbiamo un gruppo meraviglioso, e io faccio un po’ da sorella maggiore alle nostre piccole.

Vitalia è in festa per i tuoi successi!

Mi sono trovata benissimo con il dott. Massarini. Sono andata da lui per la visita agonistica, mi ha fatto notare che avevo uno squilibrio, il mio corpo era sbilanciato. Ho lavorato in palestra con Eva e Claudia, su esercizi che non avevo mai provato prima. Ho rinforzato il core, la schiena e in generale il mio fisico: sono movimenti a corpo libero molto armonici. L’idea di fondo è che bisogna potenziare in modo uniforme tutti i muscoli e non solo alcuni. Con Massimo poi abbiamo rivisto il mio programma atletico: meno corsa e più resistenza specifica, un canottiere deve costruire il fiato vogando!

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Clicca qui per vedere le video dimostrazioni degli esercizi con cui si allena Cristina

All’estero ci si allena così da anni.

Gli inglesi e gli svizzeri sono all’avanguardia. Spendono un sacco di soldi per i ritiri e partono con veri e propri tir: prima di Londra sono venuti a Varese. Si sono portati dietro tonnellate di attrezzatura… Inutile sottolineare quanto investano sulla ricerca. Quella italiana invece è una federazione poverissima, che non riesce a guardare al futuro (complice il Coni che non dà finanziamenti). Nella preparazione fisica, ad esempio, siamo fermi a convinzioni ormai datate: gli atleti azzurri sono sottoposti a sessioni massacranti affinché arrivati a una certa soglia di stanchezza procedano per inerzia. Sono tecniche che non mi convincono più. E poi il metodo Vitalia per ora ha dato i suoi frutti!

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Oggi ci sarà la cerimonia di chiusura dei WMG. Qual è il tuo bilancio sulla manifestazione?

È stata una festa dello sport, il clima era piacevolissimo. Dispiace però che la città non abbia colto fino in fondo l’occasione: sono spuntate le pubblicità dieci giorni prima dell’apertura, tant’è che non solo i residenti ma persino i negozianti sono cascati dalle nuvole. Penso a Varese, dove tra poco ci saranno i mondiali: da un anno le vie sono invase dagli striscioni. Per me invece è stata un’emozione straordinaria e una conferma: negli sport di resistenza come il canottaggio l’età (e quindi l’esperienza) può essere un plus. Si può competere ad alto livello ancora passati i 40 anni!

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Clicca qui per leggere le altre interviste dello Speciale WMG:

“La dura vita di un campione normale”

“Quella volta mi sono innamorato”

Quante ore passiamo seduti in una giornata?

Chi di noi svolge lavori “di concetto” ne trascorre molte, forse troppe. Comunque sia, è meglio che questa postura non crei troppi danni al nostro fisico.

È infatti alle troppe ore dietro la scrivania che si imputa la maggior parte dei mal di schiena che affligge la popolazione.

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Quando siamo seduti infatti, il tratto lombare della colonna vertebrale si flette leggermente in avanti e i dischi intervertebrali, quei distanziali interposti tra un disco e l’altro con la funzione di ammortizzare i carichi, si trovano sottoposti ad una pressione che è di 2 volte superiore a quella che si ha in posizione eretta. In più, se sediamo abbandonati su una sedia, la nostra muscolatura addominale e lombare sarà inattiva per molte ore al giorno e piano piano perderà la sua forza. Ecco perché, quando ci alziamo dalla scrivania dopo ore di lavoro, spesso avvertiamo indolenzimento nella parte bassa della schiena.

La più semplice alternativa sarà quella di scegliere una seduta “instabile” che ci obblighi a fare dei minimi movimenti per mantenere l’equilibrio, coinvolgendo in tale modo la muscolatura addominale e lombare e preservando la normale curva del rachide lombare (lordosi).

Cosa c’è di più semplice di una palla?

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L’equilibrio instabile di una sfera ci costringerà ad un’attivazione continua della muscolatura che mobilizza le vertebre con piccoli aggiustamenti della posizione.

In tal modo non si mantiene il carico sui dischi per tempi troppo lunghi e i muscoli, grazie a continui accorciamenti-allungamenti, mantengono un buon flusso di sangue.

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Buttiamo via la vecchia sedia da scrivania e accomodiamoci su una bella palla, scegliamola però della misura giusta: da seduti, con i piedi poggiati a terra, le nostre anche e le nostre ginocchia dovranno essere flesse ad angolo retto.

Buona seduta a tutti!

E non dimenticate che la palla è anche un ottimo attrezzo per esercizi sportivi!