[message type=”info”]Foto a cura di Marco Sala[/message]
Ogni volta che scorrono le immagini delle Winter Paralympics di Sochi non si riesce a trattenere un misto di ammirazione e stupore davanti alle performances di questi giovani che gareggiano nelle stesse discipline in cui qualche giorno prima si erano cimentati i “normali”.
Noi abbiamo scelto di seguire Sochi e di condividere con voi (qui su Facebook), quasi quotidianamente, le foto di Marco Sala, reporter ventiduenne, amico di Vitalia e inviato in Russia con NessunoPress. Ci piacciono le Paralimpiadi, insomma. Perché?
Da anni sosteniamo l’idea di ability training, una nuova metodologia di allenamento che consiste nel migliorare tutti quei fattori che si traducono in efficienza del movimento come sintesi di capacità di base (forza, resistenza e flessibilità) e di qualità più specifiche (coordinazione, rapidità, controllo del core, propriocettività).
Facile dunque capire perché siamo affascinati dalle Paralimpiadi: sono una straordinaria dimostrazione di abilità.
Confesso, ed uso la prima persona per assumere personalmente la responsabilità di quanto dico, che per lungo tempo ho detestato la locuzione “diversamente abile”: mi suonava falsa e ammantata di quel “politically correct” che cerca di rendere le cose dure e scomode, più presentabili. Ho pensato spesso che chiamare un amputato o un paraplegico o un cieco “diversamente abile” fosse un atto di pietismo.
Ho cambiato idea, ho guardato e sto guardando le gare con la lente delle “abilità” e riconosco che non può esistere un modo migliore per definire questi Atleti di “diversamente Abili”.
Solo una grande abilità, o meglio una somma di grandi abilità, può farti gareggiare su una pista ghiacciata ai cento all’ora (ed oltre!) con due gambe, due braccia e due occhi perfettamente funzionanti.
Solo un immenso bagaglio di “diverse Abilità” ti può far fare le stesse cose, con un arto o due occhi in meno.
Avevo sfiorato l’esperienza tanti anni fa, un’estate in cui collaboravo come medico con una scuola di sci che organizzava corsi agonistici sul ghiacciaio. A queste settimane partecipavano anche atleti “disabili”, come si diceva allora. Nella goliardia della situazione, un’atleta americana, ipovedente, ci sfidò a gareggiare contro di lei bendati. Accettammo la sfida. Ricordo che dopo 50 m di discesa mi strappai la benda dagli occhi con la testa che girava e una sensazione di vertigine che dai piedi arrivava alla testa. E da allora continuo a riflettere su quanto si debba essere abili per scendere su una sola gamba, per far fondo a forza di braccia, per scontrarsi seduti su una slitta in una partita di hockey.
Bisogna essere enormemente abili. Bisogna aver raccolto le abilità rimaste ed averle innalzate ad un livello supremo.
Grazie per questo immenso spettacolo!
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