Paolo Bettini in attesa del Giro d’Italia a Torino
Paolo Bettini è uno di quei campioni che hanno lasciato il segno: oro olimpico ad Atene nel 2004, due titoli mondiali nel 2006-07, Liegi-Bastogne-Liegi, Sanremo, Lombardia, tanto per citare le vittorie più importanti.
Eppure Paolino è una di quelle persone che in cinque minuti ti mettono a tuo agio, con naturalezza, con semplicità, con un sorriso.
La sua competenza ed esperienza sono preziose nel mondo del ciclismo dove continua a lavorare collaborando con aziende e organizzando attività di pubbliche relazioni.
Ecco l’intervista che Paolo Bettini ci ha regalato
Paolo, hai lasciato il ciclismo agonistico da quasi 8 anni ormai: ad oggi continui a spingere al massimo sui pedali o preferisci una più blanda velocità di crociera?
Sicuramente la seconda, sono un cicloturista. La bici per me oggi rappresenta uno strumento diverso: non la utilizzo per fare fatica, ma per stare in compagnia e godermi i paesaggi.
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Il tuo approccio alle uscite in bicicletta, per riuscire ad essere più performante, è cambiato rispetto alla tua carriera da professionista?
Ho trascorso 12 anni nel professionismo, affrontando 12 anni di allenamenti seguendo tabelle nel tentativo di trovare sempre il migliore approccio possibile per aumentare performance. Ora, come detto, esco in bici per divertimento. Un tempo utilizzavo strumenti come il potenziometro ed il cardiofrequenzimetro per analizzare la performance. Oggi utilizzo solamente il cardiofrequenzimetro.
I preparatori e i medici delle 4 differenti squadre per cui hai corso consigliavano in maniera omogenea, oppure hai trovato pareri discordanti da un team all’altro?
Ho cambiato 4 squadre, vero, ma non ho mai cambiato lo staff medico. Mi hanno sempre seguito, alternandosi, le stesse persone e quindi, avendo a che fare sempre con i soliti professionisti, non c’è mai stata discordanza tra i medici, né per quanto riguarda la preparazione atletica né dal punto di vista fisiologico. La linea è cambiata, tuttavia, con gli anni e con l’esperienza, cercando ogni volta la strada che rendesse di più. Ai cicloamatori consiglio di rivolgersi ad un medico dello sport che sappia personalizzare il programma di allenamento partendo dai dati individuali. Ho spesso discusso di queste tematiche con Massimo Massarini e condivido le sue metodiche.
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Quest’anno hai seguito il Giro da molto vicino, nonostante tu sia sempre stato un uomo da (one–day-race) corse da un giorno: come cambia la preparazione rispetto ad una grande corsa a tappe?
Chi corre per vincere un grande giro deve innanzitutto avere la mentalità per la corsa a tappe, una certa predisposizione che corrisponde ad una conditio sine qua non. Gli allenamenti per una corsa a tappe, intesi come intensità degli esercizi, metodologia e scelta dei percorsi sono differenti rispetto alle corse da un giorno perché bisogna curare tutti gli aspetti dell’andare in bicicletta: la salita, la pianura, la cronometro e la discesa. Io ero un uomo da grandi classiche, dunque mi allenavo su percorsi simili alle gare a cui avrei partecipato.
Dopo 8 anni, noti particolari differenze su quelli che sono considerati gli aspetti fondamentali nella preparazione e nel mantenimento della condizione sull’arco delle tre settimane?
Sicuramente ci sono delle differenze: la scienza va avanti e la metodologia cerca di migliorarsi. “Cerca” perché non si può standardizzare: un approccio può essere utile per un corridore, ma può non valere per altri. Si tratta di una questione individuale: secondo me, infatti, il miglior preparatore è colui che meglio capisce l’atleta. Un preparatore generico non fa rendere al meglio, per questo un personal trainer è assolutamente preferibile per migliorare le prestazioni.
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Ci si prepara diversamente in base al ruolo in squadra?
In un primo momento, anche per motivi geografici, i singoli atleti si allenano individualmente nei territori limitrofi al luogo di residenza. Naturalmente, c’è chi cerca di più la montagna e chi la pianura. Quando comincia il raduno, in un contesto di squadra, si lavora insieme: ciò limita le disparità in termini di preparazione e allenamento. Al giorno d’oggi, inoltre, il concetto di squadra è fondamentale per trovare la vittoria: è giusto esaltare le qualità personali del singolo, ma bisogna saper lavorare di squadra.
Il giorno di riposo è stato fatale per Landa, Nibali è stato in difficoltà alla cronoscalata dopo la tappa regina: che differenze ci sono? Pesa di più una tappa di montagna o il giorno di riposo?
Si tratta di una questione individuale e dipende molto dalle abitudini. Il giorno di riposo è sempre molto difficile perché interrompe la routine dello sforzo e non sai mai bene come affrontarlo. Serve una certa esperienza di se stessi per capire quale sia il metodo migliore per te: c’è chi riposa davvero, limitandosi ad una sgambettata di 50km; altri, invece, escono e pedalano un paio di ore, magari cercando una salita, per un richiamo sui muscoli, poiché fermare il metabolismo crea loro problemi.
Il caso di Landa è particolare: fa parte del Team Sky, uno dei più all’avanguardia, con camion-cucina e, nonostante ciò, dopo il riposo si ritrova affetto da gastroenterite. Sicuramente c’è stata una cattiva gestione del giorno di riposo. Vincenzo, invece, sulle Dolomiti ha percorso 30km in solitaria – come fosse una cronometro – dopo 5 ore e mezza: è stato uno sforzo enorme, per questo ha pagato a cronometro.
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Dal punto di vista alimentare nel giorno di riposo? E dopo una tappa?
Io personalmente amavo il giorno di riposo, perché potevo stare a letto senza toccare la bici. Il vero problema è che rischi di mangiare in orari diversi da quelli a cui sei abituato nei giorni di corsa, nei quali il pranzo non è contemplato. Se mangi in orari troppo diversi dalla routine degli altri giorni, ti rimane il giorno dopo e ti mette in difficoltà. Non si fanno, ad ogni modo, diete particolari: l’unico accorgimento è quello di mangiare sano. Dopo una tappa impegnativa in cui si sono bruciate 5000/6000 calorie, comunque, a nessuno sono negati due piatti di pasta, purché rientrino nei parametri del mangiare sano.
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Quando ti accorgi che è la tua giornata no? Sul primo scatto in salita, pedalando in gruppo o già nella fase di riscaldamento?
In realtà, ce ne si rende conto all’arrivo: il ciclismo è uno sport che prevede tante ore in attività, per cui la prima ora può dare sensazioni completamente opposte rispetto all’ultima. Ho avuto giornate in cui mi sentivo un leone fino a 40km dall’arrivo e poi crollavo, ma è successo spesso anche il contrario: ho vinto gare in cui, per la prima ora, mi chiedevo perché fossi partito.
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È possibile rimediare, almeno parzialmente, a giornata in corso, oppure bisogna solo cercare di trascinarsi al traguardo?
Sì, la durata della corsa dà il tempo di capire la situazione e permette di scegliere il migliore approccio da dare alla corsa. Se il corridore si conosce bene e sa interpretare le situazioni, può rimediare e limitare i danni.
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Quanto conta, invece, l’aspetto mentale, rispetto al fattore puramente fisico? Una buona condizione fisica implica sempre lucidità mentale e, dunque, buoni risultati?
Rispondo per me, ma credo sia un pensiero diffuso e condiviso. Io mi son reso conto che la testa è fondamentale: non è possibile, per un atleta di alto livello, portare a casa risultato se non c’è lucidità mentale. Sicuramente, essere consapevoli di buona condizione è un vantaggio, ma la differenza è tutta nella serenità di chi corre: si può avere una buona condizione atletica, ma se si hanno problemi in famiglia e con i cari, non si vincerà mai.
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È più difficile arrivare pronti fisicamente e mentalmente ad una manifestazione cui si tiene particolarmente? Incentrare la preparazione sul Tour o sul Giro comporta rilevanti differenze?
È più che altro difficile individuare il percorso di allenamenti giusto per arrivare pronti. L’esperienza è importante, ma non è la chiave di tutto, perché a livello metabolico quello che si fa un anno potrebbe non funzionare l’anno dopo. Secondo me il Giro d’Italia ed il Tour de France sono sicuramente diversi: le salite e, in generale, la difficoltà delle tappe del Tour sono molto differenti da quelle del Giro. Inoltre, bisogna considerare le due corse anche a livello di posizione geografica e di calendario: luoghi diversi, climi e temperature diverse.
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Sempre più atleti ricorrono ai rulli per svolgere un lavoro defaticante al termine delle tappe: quali benefici si possono trarre da questo tipo di attività?
È una moda che si è sviluppata dopo che io ho lasciato. A detta di tutti, anche quando correvo io, interrompere immediatamente uno sforzo violento, a livello di circolazione e tossine, non è particolarmente consigliato. Ai miei tempi, si cercava sempre di pedalare un pochetto dopo il traguardo. Oggi, forse complici gli sponsor e nuovi attrezzi, avere i rulli al traguardo per fare 5/10 minuti di defaticamento è cosa saggia. Nella gestione allenamento, infatti, si parte dal riscaldamento, poi ci si allena ed infine si esegue questa attività finale dopo lo sforzo: se vale in allenamento, sarà utile anche dopo una gara.
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In questi ultimi anni, nelle grandi corse a tappe stanno aumentando le partenze all’estero, come il weekend olandese di questa edizione del Giro: quanto pesa il viaggio in aereo, nel giorno di riposo, sullo stato di forma dei corridori? C’è chi riesce a trarne vantaggio e chi, invece, ne risulta penalizzato?
L’ho fatto anch’io. Secondo me è sbagliato definirlo giorno di riposo, bisognerebbe bensì chiamarlo giorno di trasferimento. Come ho spiegato, è già complicato affrontare il giorno di riposo in cui sai che ti svegli in hotel e puoi andare a pedalare oppure stare tranquillo in camera. La giornata di trasferimento, tra imbarco, volo e cambio di hotel, è sicuramente causa di notevole stress. I corridori lo accettano, loro malgrado. Non essendo una giornata di riposo, è uguale per tutti.
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Hai fatto parte della Nazionale Italiana sia come ciclista, sia come Commissario Tecnico: che differenze ci sono tra il dover preparare se stessi ed il dover preparare altri corridori? Senti maggiori pressioni e responsabilità?
Detto sinceramente, ero molto più sereno da corridore. Era il mio lavoro, quello che conoscevo e facevo da una vita: farsi trovare pronti con la maglia azzurra, finalizzare la stagione e il mio lavoro. Il mestiere del Commissario Tecnico era un nuovo lavoro per me, per questo l’ho sofferto molto di più: non avevo io in mano il gioco. Il mio compito era quello di creare un gruppo, scegliendo gli uomini più adatti per quel tipo di percorso, ma poi dovevo confidare sulle gambe degli atleti. Ho sofferto molto il passaggio, ma non ho rimpianto di aver lasciato il ciclismo. Certo, vedere i ragazzi che indossano l’azzurro e il numero sul dorso, mentre io sono costretto a stare chiuso in macchina, nervoso, per 6 ore non è il massimo. Certamente ho preferito gli anni in cui ero io a pedalare.
Intervista di Tom Pullin