Artrosi alle ginocchia? La soluzione si chiama acido ialuronico: una sostanza che il nostro corpo produce naturalmente, ma che in alcuni casi va integrata tramite infiltrazioni. Il “doc” Massarini spiega come funziona la terapia e quali novità propone Vitalia agli sportivi.
L’artrosi
L’artrosi del ginocchio è una delle patologie più diffuse ed invalidanti e consiste in una degenerazione delle cartilagini che ricoprono i capi articolari di questa articolazione. Si stima che l’80% della popolazione sopra i 55 anni presenti segni radiologici della patologia: spesso è causata da sovrappeso e favorita dalla sedentarietà, ma anche molti sportivi lamentano problemi alle cartilagini per traumi ripetuti. Le evidenze mediche supportano la necessità di praticare attività fisica moderata per prevenire l’insorgenza della malattia e per rallentarne il decorso, ma un altro importante aiuto ci viene dalla farmacologia e dall’acido ialuronico: una sostanza che viene iniettata direttamente nell’articolazione.
Cos’è l’acido ialuronico
La sostanza è presente in alta concentrazione in alcune parti del corpo umano. In particolare
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nel derma, ossia nel tessuto connettivo della pelle
nelle cartilagini articolari e nel liquido sinoviale che riempie le cavità articolari
nei tendini, ma anche nell’umor vitreo dell’occhio, dove inizialmente fu scoperto.
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L’acido ialuronico contenuto nei tessuti viene continuamente metabolizzato ed eliminato: per cui è fondamentale che l’organismo continui a sintetizzarne di nuovo per rimpiazzare quello metabolizzato. Con l’invecchiamento, o in presenza di particolari condizioni patologiche, la produzione di acido ialuronico tende a diminuire, favorendo così la comparsa del processo osteoartrosico.
A cosa serve
Perchè se manca l’acido ialuronico cominciano i dolori? Esso è presente nel liquido sinoviale che bagna le superfici articolari. Questo liquido agisce assorbendo gli urti e lubrificando le parti mobili articolari: protegge così la cartilagine articolare e trasporta le sostanze nutritive alle cellule della cartilagine stessa. All’interno dell’articolazione, dunque, l’acido ialuronico svolge un doppio ruolo: per la sua capacità di interagire con recettori specifici ricopre un’azione antiinfiammatoria e per le sue proprietà viscoelastiche diminuisce gli attriti delle superfici cartilaginee deteriorate.
In situazioni di particolare carenza, è dunque indispensabile integrare la produzione naturale con i farmaci. L’offerta è ampia: in funzione della gravità del processo degenerativo si possono iniettare preparati con caratteristiche diverse. In caso di patologia di grado lieve o moderato, si sceglierà un acido ialuronico di peso molecolare ottimale (peso molecolare 500-730 KDa) per svolgere i suoi effetti biologici sulla cartilagine; nei casi di grado severo, dove la cartilagine è irrimediabilmente compromessa e quindi l’effetto biologico risulta meno importante, si utilizzerà un acido ialuronico con adeguate caratteristiche visco-elastiche.
Quantità e frequenza dei trattamenti vanno valutati caso per caso, ma in linea generale negli anziani si operano tre infiltrazioni a distanza di una settimana una dall’altra, da ripetere ogni 3-6 mesi in base alla sintomatologia.
Un prodotto ancora più efficace per gli sportivi
Vitalia propone da tempo la terapia e ha recentemente introdotto un nuovo preparato particolarmente utile agli atleti.
La ricerca farmaceutica, infatti, ha elaborato una sostanza che esercita un’attività biologica anti-infiammatoria e di rallentamento della progressione del danno cartilagineo ed ha al contempo un forte potere lubrificante. Essa funziona inoltre come shock-absorber: grazie alle caratteristiche viscoelastiche del biopolimero, che si comporta come un cuscinetto protettivo tridimensionale.
La nuova molecola di acido ialuronico si chiama HYADD 4 e grazie alla particolare struttura chimica rimane in articolazione fino a 28 giorni ed è in grado di mantenere la sua struttura a reticolo tri-dimensionale, e quindi l’effetto shock-absorber, anche dopo sollecitazioni ripetute. L’elevato potere lubrificante riduce inoltre l’attrito tra le superfici cartilaginee e favorisce l’instaurarsi dei processi riparativi della cartilagine, messi in moto dallo stesso polimero attraverso le sue proprietà biologiche: si ottiene così un miglioramento della funzionalità articolare.
Lo HYADD 4 è dunque particolarmente adatto per quei pazienti affetti da osteoartrosi lieve-moderata che conservano uno stile di vita dinamico e per gli sportivi che hanno subito danni articolari cartilaginei acuti o da over-use. In questi casi esso può rallentare l’evoluzione del danno e ridurre il dolore. Un ulteriore vantaggio è che bastano due sole infiltrazioni per ottenere miglioramenti per molti mesi.
Non bastano le infiltrazioni
Certo non è sufficiente la terapia infiltrativa: va associata ad un adeguato programma di esercizio fisico e rinforzo muscolare. Infatti la corretta attivazione muscolare permette all’articolazione di muoversi con maggiore controllo e quindi di ridurre il traumatismo sulla cartilagine. L’approccio rieducativo deve essere quello della ricostruzione degli schemi motori che risultano per forza alterati a causa del dolore cronico. Va studiato dunque per ciascun paziente un piano di esercizi, che seguendo la progressione codificata nell’Ability Training (ne parliamo qui), stimoli il recupero funzionale del gesto atletico.
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E’ uscito in questi giorni il numero di giugno e luglio di Ski Alper, cifra tonda: è il centesimo. Nella consueta rubrica di Vitalia parliamo di running: meglio “ammortizzati” o al naturale, con scarpe così minimal da farci sentire a piedi nudi? Ci sono pro e contro per ogni runner: valutate con attenzione quali sono le vostre caratteristiche.
C’è chi lo chiama barefoot running, natural running, pose running o chi running, ma la sostanza non cambia: la moda di correre con scarpe minimal sembra affascinare il mondo del trail. Il sogno di migliorare la tecnica di appoggio, ridurre gli infortuni e andare più forte spinge molti appassionati a orientarsi verso scarpe leggerissime con sistemi di ammortizzazione e stabilizzazione ridotti all’osso che promettono di far sentire il piede libero e a contatto con il terreno. Articoli di tecnica di corsa postulano teorie secondo le quali la suola pochissimo ammortizzata spinge il runner a correre meglio con appoggi sull’avampiede e con una frequenza di passipiù alta. La teoria (e il messaggio di marketing delle aziende) su cui si è sviluppata questa tendenza è: l’uomo è nato scalzo e quindi è stato fatto per correre in maniera naturale, le calzature super ammortizzate hanno alterato la tecnica di corsa favorendo l’appoggio di tallone e addormentando la sensibilità del piede, ergo, riduciamo al minimo la suola e torneremo a correre come natura vuole. Affascinante? Sì. Vero? Vediamo.
Per evitare di farci prendere da soggettivismi su base empirica del tipo ‘un mio amico che aveva male al ginocchio…, mio fratello che aveva la tallonite….’ , siamo partiti dai più recenti lavori scientifici pubblicati su riviste indicizzate (clicca qui per la bibliografia), ne abbiamo selezionati tre, li abbiamo letti e interpretati e riassunti nei punti salienti per presentarvi la versione più scientifica possibile della diatriba in maniera comprensibile.
Alcune doverose premesse
Primo punto: negli ultimi 50.000 anni l’uomo ha sviluppato calzature sempre più confortevoli adattandosi a esse. Dagli anni ’70 a oggi il numero di runner èaumentato esponenzialmente e molti di essi sono pesanti, non adeguatamente preparati muscolarmente o con problematiche biomeccaniche. Forse se non ci fossero le calzature ammortizzate i traumi sarebbero ancora più numerosi. Secondo punto: non c’è correlazione tra traumi e tipo di calzature. Sia che usino scarpe ammortizzate o minimal, l’eziologia degli infortuni risiede in complesse cause biomeccaniche. Terzo punto: non si possono trarre conclusioni univoche. Non lo permette la dinamiche delle cause e nemmeno la natura degli studi effettuati, che per di più sono stati condotti con modalità differenti (ad esempio su treadmill o su superfici fisse).
La questione infortuni
Perché si dice allora che il barefoot running riduca gli infortuni? Il postulato di base trova il suo fondamento nel fatto che correre con una protezione minima o assente modifichi la tecnica di corsa portando il soggetto ad atterrare con il mesopiede o sull’avampiede. Ciò comporterebbe una miglior assorbimento delle forze di impatto e un miglior utilizzo della fascia plantare che agirebbe da ammortizzatore. Tale tecnica di corsa prevede anche un aumento della frequenza dei passi che dovrebbe essere di circa 170- 180/min. Il conseguente accorciamento della falcata comporterebbe angoli di lavoro meno accentuati nell’articolazione del ginocchio mentre aumenterebbe l’angolo di flessione plantare del piede. Purtroppo l’origine degli infortuni è molto complessa e dal punto di vista biomeccanico non sempre è possibile individuare un singolo fattore che sia assolutamente predittivo. Inoltre anche se così fosse non sarebbe facile correggerlo. Quali sono i più comuni infortuni del podista e come vengono influenzati da calzature minimal? Per semplificare le problematiche, i lavori analizzati hanno classificato le più comuni patologie da sovraccarico in cui incorrono i podisti confrontandole con i fattori predisponenti, su come essi vengano influenzati dal barefoot running e quindi sui potenziali risultati attesi.
La tabella qui sopra, che abbiamo pubblicato su Skialper, dimostra ulteriormente che alcune patologie possono essere aggravate mentre altre possono beneficiare dall’uso di scarpe minimal. Studiandola è evidente, e lo ripetiamo di nuovo, che le conclusioni sull’effetto del barefooot running nelle varie patologie non sono univoche. Nelle fratture da stress della tibia e dei metatarsi, un aumento della pressione nell’impatto con il suolo causato dal barefoot running può aumentare il rischio di incorrere in queste patologie. Nella sindrome femoro-rotulea, si ritiene che un miglior allineamento del ginocchio e minor forze di impatto grazie all’appoggio sul meso e avampiede tipici del barefoot possano essere di beneficio nel prevenire e nel favorire la regressione delle problematiche. Per quanto riguarda la caviglia e le patologie del tendine d’Achille, a fronte delle teorie a favore del minimal, fondate sulle considerazioni del passo più corto e con minori forze di impatto, si associa una maggiore flessione plantare e una più alta sollecitazione dell’Achille che verrebbe quindi esposto a un maggior rischio di patologie da sovraccarico. Nella fascite plantare si può invece ipotizzare che il rinforzo dei muscoli che sostengono l’arco plantare causato dal correre con poca ammortizzazione possa essere di beneficio, ma anche in questo caso la conclusione è che è necessario approfondire gli studi e le ricerche.
Ad ognuno la sua scarpa
Si può modificare la tecnica di corsa? Conviene farlo? I pareri sono anche qui discordi: quello che senz’altro si deve consigliare è la gradualità nel passaggio da scarpe ammortizzate a calzature minimal. Soprattutto chi corre con appoggio sul retropiede deve fare particolare attenzione nelle prime fasi in quanto la tecnica di corsa richiede tempo per modificarsi e il rischio è quello di aumentare piuttosto che diminuire gli infortuni nella prima fase. Le nuove calzature andranno quindi utilizzate per brevi tratti di corsa, qualche centinaio di metri, alternati a tratti di camminata. Da uno degli studi pubblicati si evince comunque che non è detto che chi corre con appoggio sul tallone riesca a modificare stabilmente la sua tecnica di corsa e quindi potrebbe essere ancora più esposto al rischio di infortunio con le scarpe minimal. Alla luce di quanto esposto finora, si può affermare che se si è trail runner non più giovanissimi e con una struttura fisica non leggerissima, l’opzione barefoot diventa ancora più rischiosa: si pensi a quanto vengano sollecitate le strutture muscolo tendinee del polpaccio e le articolazioni metatarsali che, per effetto dell’età, tendono naturalmente a essere meno elastiche. Infine, non dimentichiamo che, soprattutto nei trail lunghi, la fatica tende a causare un rallentamento dei riflessi e delle reazioni muscolari ed in queste situazioni l’uso di calzature scarsamente protettive può aumentare il rischio di infortuni.
[message type=”info”]Foto a cura di Marco Sala[/message]
Si sono appena concluse le Paralimpiadi di Sochi e abbiamo ancora negli occhi il miracolo umano (neanche da dire) e sportivo (questo ve lo possiamo spiegare) dei Giochi: solo un immenso bagaglio di “diverse Abilità” può farti gareggiare ai cento all’ora su una pista ghiacchiata con un arto o due occhi in meno. Guardando le gare russe ci si può davvero rendere conto di che cosa siano le abilità che il nostro corpo possiede (per esempio quella di reggersi su una gamba sola) e sviluppa (a diversi livelli, fino ai risultati superbi delle medaglie olimpiche). Il sistema di “ability training” che utilizziamo da Vitalia si fonda proprio su queste premesse.
Allenare le abilità è un concetto logico e allo stesso tempo rivoluzionario.
Grazie alle abilità possiamo infatti relazionarci quotidianamente con il mondo esterno: le usiamo per la vita quotidiana, per allenarci, per gareggiare, ma anche per recuperare una funzionalità perduta per un incidente o per un trauma.
Negli ultimi anni la modalità di allenamento è progressivamente cambiata ed è migrata da una metodologia strutturata su gruppi muscolari e percentuali di intensità applicate alla qualità di base ad un approccio più creativo, divertente e “funzionale”.
Tuttavia, ciò che l’allenatore professionista deve quotidianamente fare è costruire sedute di allenamento che rispettino per ogni individuo i concetti chiave di sicurezza ed efficacia.
Combinare questi due requisiti fondamentali nell’ambito dell’allenamento funzionale è quanto mai complesso e l’osservazione degli esercizi e degli attrezzi piccoli e grandi che appartengono alla famiglia del “functional training” proliferati negli ultimi anni non aggiunge di certo ordine.
Il nostro obiettivo è quello di comprendere a fondo il significato di functional training, di organizzarlo e di renderlo fruibile da ogni persona che si rivolga a noi, vuoi per migliorare la propria performance sportiva, vuoi per recuperare dopo un trauma.
Per riuscirci bisogna avere in mente un percorso che colleghi le capacità di base alle qualità specifiche, che permetta di comporre piani di allenamento seguendo una logica più articolata di quella finora utilizzata e che si basava su classificazioni in base ai muscoli.
L’Ability Training si pone lo scopo ambizioso di coniugare metodiche tradizionali finalizzate al miglioramento delle capacità di base – resistenza organica, forza, flessibilità – ad esercizi che rispondono ad una classificazione diversa ed innovativa fondata sui concetti di integrazione, coordinazione neuro-muscolare e funzionalità. Solo attraverso questa fusione e grazie a nuove regole della “sintassi” del movimento è possibile fornire un metodo nuovo ma rigoroso per l’allenamento.
Secondo la logica dell’ability training le qualità di base possono essere paragonate a degli accumulatori di resistenza (capacità aerobica), di forza (forza muscolare) e di mobilità (flessibiltà). Il loro allenamento porta ad un aumento della loro capacità che potrà essere messa sul campo, nell’esecuzione del gesto, attraverso un’ottimizzazione delle qualità condizionali e coordinative. L’allenamento delle abilità, quindi, si focalizza sul recupero delle capacità motorie e quindi sulla capacità di esprimere il movimento del corpo trasformando le qualità di base in gesto efficace e correttamente eseguito.
Per allenare le qualità di base è necessario ricorrere ai postulati tradizionali dell’allenamento che prendono in considerazione la finalità dell’obiettivo per definire l’intensità ed il volume dell’esercitazione. Ciò è molto chiaro sia nell’allenamento aerobico che nell’allenamento della forza soprattutto quando essi sono finalizzati a prestazioni sportive.
La finalità dell’allenamento delle abilità è tuttavia più ampia e deve offrire principi di allenamento adatti anche a soggetti fortemente decondizionati o addirittura in fase riabilitativa.
Ecco allora che l’allenamento integrato di accumulatori e trasformatori risulta la migliore forma di prevenzione e di prestazione allo stesso tempo.
Nel soggetto decondizionato o patologico, allenare le qualità di base rappresenta spesso il primo passo di un percorso teso a ristabilire o migliorare la funzionalità globale. Per fare ciò si dovrà obbligatoriamente tenere conto dell’intensità e del volume del carico coniugandoli a movimenti che dovranno essere adeguati alle capacità coordinative ed al controllo neuromuscolare.
Contattaci per avere informazioni sull’ability training da Vitalia.
Nello sport più arrivi in alto più e più è difficile gestire le situazioni. I grandi atleti chiedono la massima professionalità e discrezione, collaborano con poche persone e di fiducia. Si deve saper dire la parola giusta e non dire quella sbagliata; esserci quando serve e diventare invisibili quando è ora. È l’errore di molti colleghi, pur bravi: durano poco perchè non sanno dominare l’aspetto emotivo e parlano a sproposito”.
Devi saper riconoscere le occasioni: “devi”, non puoi sbagliare. Il tempo, il luogo, quel tempo, quel luogo…“in certi ambienti” si annusano. “Bisogna avere la capacità di starci, in certi ambienti”.
Fabrizio Borra è uno dei fisioterapisti più stimati in Italia, da venticinque anni: “arrivare in alto è dura, ma io sono stato fortunato e ho fatto in fretta. Il problema è rimanerci: basta un errorino per precipitare. Ci si deve aggiornare continuamente”. Fabrizio è un osservatore, uno che guarda da tutta la vita: suo fratello maggiore già fisioterapista, poi gli americani innovatori, i cestisti di Forlì, i ciclisti in salita, le Ferrari in giro per il mondo. Quello che impara sperimenta, su muscoli d’oro: quelli del cecchino Bob McAdoo, di Pantani, Cipollini, Basso, Fernando Alonso, Fiorello, Jovanotti. Dal 1988 studia i campionissimi:
Gli atleti devono esasperare il loro corpo, farlo rendere al 110%. Devono andare al limite di loro stessi: è un obbligo. È lì che li accompagno.
Fabrizio, “Fisiology” è un centro frequentato da persone normali e olimpionici. Come conciliate esperienze così lontane?
Abbiamo un presupposto tecnico preciso: il metodo per trattare il mio vicino di casa e l’atleta professionista è lo stesso. Cambia il dosaggio. La persona normale parte da un basso grado di disabilità, dovuto ad una patologia, e deve recuperare la capacità di svolgere le sue attività quotidiane; l’atleta vuole guarire e migliorare la sua performance. Il razionale è uno solo: sono diversi gli obiettivi. Per portare in alto l’atleta devo trovare soluzioni innovative: se l’esperimento funziona ho una nuova tecnica con cui aiutare gli altri pazienti. In questo modo sono sempre stimolato a fare ricerca e offro trattamenti d’avanguardia.
Concretamente, di che cosa ti occupi?
Sono un fisioterapista, non un preparatore, non un medico. Nel mio centro ci sono questi profili, ma ognuno fa la sua parte: io curo la salute a livello fisioterapico. A seconda delle circostanze devo declinare il mio ruolo, ma la premessa è comune: un atleta è come una macchina da corsa (una persona comune è un’auto stradale) e gli aspetti strutturale, scheletrico, muscolare, tendineo costituiscono la meccanica della macchina; la prestazione è il motore; la testa è la centralina, su cui posso agire in due modi: neuromuscolare e psicomotivo. Posso seguire la macchina a 360°, com’era con Pantani ed ora è per Alonso; oppure valutare solo la carrozzeria e il bilanciamento: per i ciclisti, ad esempio, mi limito alla biomeccanica posturofunzionale. Poi tocca al preparatore atletico agire sulla performance.
La tua giornata tipo?
La mia base è “Fisiology” a Forlì e viaggio per alcuni pazienti. Pantani e Alonso mi chiedevano un impegno di 250 giorni l’anno: un ritmo troppo intenso, per me, oggi! Proprio per questo ci dividiamo i compiti con suo cognato Edoardo Bendinelli.
Segui Alonso da dodici anni. Com’è cresciuto?
Aveva diciott’anni quando ci siamo conosciuti: era un ragazzino. Ha capito che il rapporto poteva svolgersi non solo sul piano fisioterapico ma anche su quello umano. Abbiamo creato un’équipe di specialisti con cui interagire a seconda delle necessità: gli atleti come lui preferiscono relazionarsi con un unico riferimento. Il legame si è stretto e alla stima si è aggiunta l’amicizia.
Come si allena un pilota di Formula 1?
Ha due esigenze: innanzitutto deve avere tutte le capacità di base portate verso l’alto, come la forza e la capacità cardiovascolare. È facile con Fernando: gli piacciono tutti gli sport e non sta mai fermo. Ma un atleta come lui ha sempre bisogno dello stimolo della competizione: con gli altri o con se stesso, dev’esserci la componente agonistica. Gioca a calcio, nuota, corre e va tanto in bici (15mila km all’anno): gli è molto utile il ciclismo perché impara a gestirsi (deve tornare a casa: anche dopo 130 km!) e le strutture sono in scarico. La seconda caratteristica da affinare è la capacità di controllo neuromuscolare per combattere la forza centrifuga. Le monoposto sono pezzi di carbonio lanciati sull’asfalto: le sollecitazioni sulla colonna sono spaventose e bisogna investire molte energie sulla funzionalità globale e sull’addestramento delle abilità.
E le sollecitazioni al collo sono ancora un problema?
Le macchine sono cambiate rispetto a cinque anni fa, quando faticavano soprattutto le braccia e il collo. Oggi è cambiata l’aderenza e grazie all’idroguida il volante si governa con un dito. I nuovi mezzi richiedono una straordinaria lucidità mentale: bisogna memorizzare gli schemi e abbassare i tempi di reazione. Non c’è tempo per pensare in Formula 1, quando lo fai è già tardi. Le manovre vanno sottocorticalizzate, cioè l’impulso deve essere immagazzinato nella parte più profonda del cervello perchè diventi un automatismo: l’unico sistema è ripetere i gesti sui simulatori.
Anche il ciclismo ti ha dato soddisfazioni.
Sono stati da me molti dei migliori degli ultimi anni: Cipollini, Basso, Bettini, Cancellara, Bennati… Ma l’esperienza più forte della mia vita ha un nome ed un cognome: Marco Pantani.
18 ottobre 1995, Milano-Torino: frattura di tibia e perone frammentaria esposta.
Fu la mia più grande scuola. Lo rieducai grazie a quanto appreso in America e ad un delicato lavoro multidisciplinare: coordinai una squadra di esperti per rimetterlo in sella. Tornammo in alto, all’apice del successo: vinse il Giro e il Tour, ci sembrò di sfiorare la punta del cielo. Poi il crollo: aveva toccato il fondo. Non ci fu modo di aiutarlo, la crisi lo portò all’autodistruzione. In dieci anni accompagnare il tuo atleta dal cielo al cimitero: sono cose che ti porterai dentro. È stata una lezione durissima.
Le tue mani hanno massaggiato i più forti. Che cosa c’è nel corpo di un campione?
Un fisico allenato dall’infanzia e poi testa e talento. Un buon atleta ha un buon talento e una buona testa. Un campione ha un grande talento e una grandissima testa.
Che cosa pensi dei mental coach?
Secondo me un vero campione non ne ha bisogno: non può essere dipendente – a livello mentale – di un altro. È giusto che i giovani siano aiutati a crescere in fretta anche nella psicologia e nell’emotività, ma ad un certo punto bisogna saper fare da sé: il campione ce l’ha dentro, il mental coach. Non ha bisogno di sostituirlo ogni due anni… In alcuni momenti specifici può farsi aiutare, ma dev’essere padrone di se stesso: sarà la sua determinazione a fare la differenza.
I tuoi “numeri uno” non sono solo atleti, ma anche uomini dello spettacolo. Perché vengono da te?
Ho cominciato con Jovanotti nel ’97, mi chiese qualche dritta per preparare la sua tournée. I suoi concerti sono molto fisici, si muove come un matto, le date sono vicine e non ha un attimo di tregua: doveva imparare a recuperare in fretta. La collaborazione continua ancora oggi. Fu un amico comune a presentarmi Fiorello, che non riusciva a superare un dolore alla spalla. Anche con lui la relazione si è consolidata: su Twitter mi aveva definito come il suo “ansiolitico”.
Come sei arrivato fin qui?
Ho iniziato per colpa del mio ginocchio: ero stato operato ma non riuscivo a riprendermi. Mio fratello aveva una palestra a Brescia (la mia città) e andavo da lui per la rieducazione: volevo capire perché il ginocchio non funzionasse. Dovevo ancora finire le superiori. Mi appassionai e decisi di iscrivermi al corso di massiofisioterapia. Mio fratello mi permise di fare pratica mentre studiavo e questo mi diede una marcia in più.
Mister Maifredi ti volle subito al suo fianco.
Dopo poco. La mia fortuna fu che a quel tempo il Brescia aveva due squadre (calcio e basket) nelle massime serie. Ebbi da subito contatti con i rispettivi massaggiatori e imparai tantissimo. Poi Maifredi mi prese “in custodia” per alcune fortunate avventure: tra queste le stagioni con Ospitaletto (C2) e Bologna (B). Anche un amico che correva in macchina, Alex Caffi, mi volle con sé quando approdò in Formula 1. Intanto continuavo con la pratica da mio fratello ed era nato mio figlio: mia moglie mi voleva a casa, viaggiavo tropp
Il segreto era cambiare casa!
Mi chiamarono a Forlì, nel 1990. Era arrivato dall’America il giocatore più forte del momento, veniva a chiudere la carriera da noi e voleva un terapista: era Bob McAdoo, stella dei Lakers, che avrebbe dato una svolta alla mia formazione. Mi diceva: “Tu sei un buon trainer – l’equivalente della mia figura in NBA- ma devi andare in America!”.
Sei salito su un aereo?
Non me lo potevo permettere! A fine anno mi regalò lui i biglietti per Los Angeles, e una spinta per un tirocinio con i Lakers. Con il suo nome si aprirono le porte, ma c’era spazio solo per un apprendista-tuttofare: ci andai d’estate, per la Summer League. Al mattino stavo in clinica, il resto della giornata con la squadra. Portavo le borracce, gli asciugamani, pulivo i parquet. Tornai per diverse estati, nel frattempo era nata un’amicizia straordinaria con Gary Vitti, il trainer dei Lakers (ormai, dopo vent’anni, è diventato il mio “fratello” americano) ed era lui ad ospitarmi.
Gli americani erano più bravi?
Nella traumatologia erano e sono tra i migliori al mondo. Allora poi i loro libri non si trovavano in Italia e venivano tradotti dopo tre o quattro anni, quando loro avevano già inventato nuove tecniche. L’unico modo per essere aggiornati, prima di Internet, era andarci.
In quello spogliatoio c’era gente tipo Magic Johnson…
Era il posto più bello del mondo per uno del mio mestiere. Pur di rimanerci ero disposto a tutto. Non mi sono mai pesati i lavori umili, non mi sono mai vergognato. Oggi i neolaureati sono tutti dottori, nessuno ha voglia di sporcarsi le mani: ma la gavetta è un passaggio fondamentale!
A che punto è la fisioterapia in Italia?
All’estero ci sono una cultura e un know how che noi ci sogniamo: qui siamo fermi ai protocolli. Ai convegni io spiego il razionale, non l’esercizio: invece i rieducatori italiani vogliono gli esercizi. Ecco il nostro limite: l’esercizio si misura sul paziente, non esistono protocolli. Nella mia ottica il paziente ha un percorso soggettivo: rispetto i tempi che mi dà il chirurgo e divido il percorso in fasi, come delle tappe. Passo alla successiva solo quando si è raggiunto il traguardo della precedente. Controllo le risposte del paziente e formulo gli esercizi ad hoc: devo capire ogni giorno di che cosa ha bisogno. Oggi pochi hanno voglia di pensare…
Anche tu fai parte del Team Technogym Ability Training, insieme al dott. Massarini. Dove volete arrivare?
Siamo un gruppo di professionisti che si sono tolti le loro soddisfazioni e ora vogliono provare a cambiare le cose, con una rivoluzione culturale: noi crediamo il movimento sia costituito dalle abilità di base, quindi ogni allenamento deve essere strutturato per migliorarle. Dopo un infortunio è necessario recuperarle tutte. Anche Massarini ne è convinto – del resto collaboriamo da una vita – e il metodo Vitalia è lo stesso che uso io. La mia rieducazione è più esercizio che lettino (per il 90% dei colleghi essa è esclusivamente lettino): l’esercizio è la soluzione alla maggior parte dei problemi!
Massimo Massarini è specialista in Medicina dello Sport. In qualità di responsabile medico ha partecipato alla America’s Cup 1987 e 1992 e ha lavorato presso Technogym nella progettazione di attrezzature per la valutazione e l’allenamento. Nel 2005 ha aperto a Torino “Vitalia”, una società orientata al benessere ed alla prevenzione attraverso l’attività fisica.
Dottor Massarini, qual è la condizione atletica dei giovani torinesi?
I miei pazienti sono quasi tutti agonisti quindi il mio giudizio riguarda solo uno spaccato dei cosiddetti “sportivi”. Registro una scarsa preparazione fisica generica: i ragazzi oggi si specializzano sin dall’infanzia in una disciplina ma trascurano i gesti fondamentali (correre, saltare, strisciare, arrampicarsi, rotolare…), che si dovrebbero allenare in maniera naturale attraverso il moto spontaneo. Questa carenza è il risultato della sedentarietà a cui li abbiamo abituati, complici il contesto urbano in cui crescono e le ossessive apprensioni dei genitori. Per stare bene un adolescente deve condurre una vita il più possibile attiva e sana (camminare, giocare all’aperto, correre, sfogarsi ogni giorno, in più momenti e per più di mezz’ora in tutto), non bastano i tornei di tennis o le gare di sci.
Scuola e salute: prevenire o curare?
La scuola ha il compito di educare i ragazzi e quindi deve dare loro anche insegnamenti sulla salute. Servono innanzitutto misure concrete: più intervalli nella mattinata, distribuzione delle ore di educazione fisica in due giorni diversi (in modo da garantire a tutti un minimo di due occasioni per muoversi alla settimana), maggior insistenza sull’importanza di colazione e merenda (il cervello è una macchina e funziona a zuccheri, se non ne riceve il suo rendimento cala). Una volta presi questi accorgimenti, e solo allora, possiamo aggiungere le lezioni su droghe, alimentazione e tabagismo.
Qual è la ricetta per un buon corso di educazione fisica?
Gli studenti devono consolidare l’apprendimento della motricità di base: ai docenti il compito (arduo!) di seguire programmi adattabili ai diversi livelli atletici degli allievi. Quanto ai test, credo che la lezione vada intesa come un tempo per l’allenamento e che il professore dovrebbe valutare i progressi del singolo ragazzo durante l’anno (non giudicarne le prestazioni con una tabella di riferimento). Infine mi sembra necessario rivedere l’aspetto teorico della materia integrando lo studio delle scienze motorie con alcuni elementi di medicina di base. Penso ad una collaborazione stretta tra professori di educazione fisica e di scienze, per rendere più interessanti e concrete entrambe le discipline: perché non utilizzare qualche ora di ginnastica per approfondire l’anatomia umana? La palestra è un luogo privilegiato per verificare con l’esperienza i meccanismi del nostro corpo.
Campioni in bilico tra libri e pallone: come trovare l’equilibrio giusto?
Facciamo chiarezza: i potenziali “campioni” sono quegli atleti che gareggiano, in età scolare, a livello nazionale. Il discorso per loro è molto complesso (ci sono sport incompatibili con una frequenza regolare delle lezioni), ma rappresentano una minoranza. Per tutti gli altri agonisti l’impegno è massiccio e quotidiano ma può essere coniugato con uno studio serio e regolare. Non c’è antitesi: la competizione con i sacrifici che comporta è uno stimolo prezioso per la crescita di un adolescente ed è molto più formativa della pratica amatoriale (la gara è una fine metafora della vita). Quindi è grave che scompaiano i gruppi sportivi e si riempiano le palestre, come sta accadendo: la sala pesi fine a se stessa è una prediscoteca, dove ci si allena esclusivamente per essere più belli. Tocca alla scuola limitare i danni della civiltà dell’estetica: c’è differenza tra un sabato sera di sbronze e una sveglia all’alba per gareggiare. Almeno sul piano morale gli atleti diligenti vanno premiati, incoraggiati ed elogiati come esempio per i compagni.
Articolo tratto da Lucia Caretti, “Scienze motorie e salute” in “Il nostro tempo”, Domenica 25 dicembre 2011, Anno 66, num. 45, pg. 17.
La settimana scorsa un prestante signore giapponese di 80 anni si è permesso di scalare gli 8848 metri dell’Everest.
Questo fatto di cronaca ci lascia senza parole ma deve essere contestualizzato al giorno d’oggi.
Abbiamo un Presidente della Repubblica di 88 anni, un Papa, Benedetto XVI, che ha lasciato il suo pontificato ad 86 anni e in ogni campo, dall’arte alla scienza, allo spettacolo, sono molti gli ottuagenari che continuano a stupirci per qualità e capacità personali.
È vero, l‘Italia ed il Giappone sono i paesi in testa alle graduatorie mondiali per longevità ed età media della popolazione ma, a parte ciò, dobbiamo considerare che la definizione di anziano deve essere ripensata e collegata a capacità fisiche e mentali piuttosto che a fattori anagrafici.
Nello sport è perfettamente normale imbattersi in cinquantenni, sessantenni e più che continuano a praticare podismo, ciclismo, nuoto, sci e alpinismo con livelli prestativi superiori a quelli di molti trentenni.
Ma quali sono i segreti per arrivare in forma all’età in cui una volta si viveva tra poltrona e letto?
Essere magri: moltissime ricerche mediche evidenziano come il tessuto adiposo in eccesso rappresenti il fattore favorente all’instaurarsi di patologie cardiovascolari, diabete e tumori.
Allenarsi con costanza: praticare 2-3 h/settimana di attività sportiva aerobica permette di rallentare moltissimo il decadimento della capacità aerobica.
Continuare a fare esercizi di rinforzo muscolare: se l’attività aerobica mantiene la resistenza e combatte l’eccesso di peso, l’allenamento della forza mantiene la velocità di esecuzione e previene dalle cadute che sono la maggiore causa di decadimento negli anziani.
Bere molto, almeno 2 l di acqua al giorno: mantenersi idratati permette tra l’altro di conservare nel tessuto collagene (quello che costituisce i tendini e l’avvolgimento dei muscoli) la quantità di acqua necessaria a mantenerne l’elasticità.
[message type=”info” title=”American College of Sports Medicine”]Le linee guida proposte dall’American College of Sports Medicine suggeriscono di associare ad un programma di resistenza aerobica, un programma di allenamento della forza per i maggiori gruppi muscolari svolgendo 2-3 serie tra le 10 e le 15 ripetizioni. Tali indicazioni risultano tuttavia molto generiche e non tengono conto delle importanti differenze funzionali tra un soggetto e l’altro. D’altronde è dimostrato che stimoli di intensità troppo bassa (<60% di 1 RM) non producono gli adattamenti ricercati. In anziani fragili sarà opportuno inserire esercizi con pesi liberi (manubri) in posizione eretta per migliorare l’equilibrio.[/message]